Lo aveva detto quando la sua elezione a presidente dell’Ars era ancora di là da venire. Lo ha ribadito (già più volte) a elezione avvenuta. Non ci convince la frenesia con cui Gianfranco Miccichè tiene a sottolineare che il tetto agli stipendi dei dipendenti di Palazzo dei Normanni è destinato allo scoccare del nuovo anno a finire nel dimenticatoio. Appare un modo troppo sbrigativo e quasi infastidito di liquidare con un’alzata di spalle il risultato di una battaglia di grande valore e opportunità istituzionale, ampiamente sollecitata da questo giornale e condotta in porto dalla precedente assemblea regionale. Cosciente che era doveroso lanciare un chiaro segnale, almeno etico e morale, in un momento di grave contingenza generale in cui l’opinione pubblica non solo locale ritiene inaccettabili e ingiustificabili certi livelli di retribuzione dell’alta burocrazia siciliana, che non trova riscontri nel confronto con le altre amministrazioni regionali e perfino ministeriali (le cronache nazionali ne hanno fatto ormai da tempo un consolidato e inconfutabile tormentone). L’accorata e approfondita lettera aperta firmata ieri su questo giornale da don Cosimo Scordato e don Francesco Romano merita almeno un supplemento di riflessione in più (magari affidato all’intero parlamento e non all’orientamento espresso dal solo presidente). Così come maggiore cautela e prudenza istituzionale meriterebbe forse il continuo riferimento alla possibilità di integrare con nuove figure esterne l’attuale burocrazia assembleare che, a detta di Miccichè, «non ha l’esperienza giusta» ed è «fortemente deficitaria». Non un bel attestato di stima all’articolata e ricca dotazione organica dell’Ars. Chissà, magari parzialmente compensato proprio dalla acclarata voglia di cancellare al più presto quei tetti ai superstipendi dei superburocrati. Per Miccichè non troppo super. Né i primi, né i secondi.