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La (mezza) Sicilia che inverte la rotta

Il pragmatismo che unisce in extremis un centrodestra a ranghi sciolti con vista sul traguardo comune: la vittoria finale. Il dibattito iper teoremico che sbrindella il centrosinistra con vista sul traguardo comune: il dagli all’untore dell’ideologia pura.

Il meglio che prevale sul massimo per i grillini, capaci di fare il pieno di voti come nessun altro partito, ma che sotto sotto gongolano perché non dovranno sporcarsi le mani col governo di una Sicilia agonizzante, mantenendo così il ruolo – suvvia, molto più facile – di monolite d’opposizione che non ne macchi l’autocandore in vista delle imminenti disfide romane.

Il tutto abbondantemente annacquato da un astensionismo a livelli patologici, superiore al disastro di 5 anni fa e che certifica la distanza siderale, al di qua dello Stretto più che altrove, fra la politica e la gente comune.

Disaffezione, disillusione, delusione, indignazione, indifferenza, indolenza, ignoranza: di tutto un po’ in quel 53% di elettori che hanno disertato la contesa.

La (mezza scarsa) Sicilia che emerge rabberciata e rivoltata come un guanto dalle urne si consegna a un bipolarismo anomalo. In cui il vecchio establishment forzista è tornato in campo, dimostrando che i cingolati di Miccichè & c. sono tutt’altro che arrugginiti e che la voglia di rinnovamento dei ranghi a suo tempo voluta da Berlusconi è stata quanto meno prematura e intempestiva.

Il tutto accanto a una Lega che ha saggiamente e proficuamente scelto di mescolare i propri ranghi con le truppe di Fratelli d’Italia (Giorgia Meloni è forse il leader politico che da queste elezioni in salsa sicula esce col voto più alto) e a un’area centrista sotto l’ombrello scudocrociato che è tornata a rialzare la testa dopo le brume delle ultime comunali.

Risultato: Musumeci, candidato credibile per esperienza e spendibile per immagine (comunque ben meno istrionico e teatrale del Crocetta appena finito non a caso nel repertorio di Crozza), è il nuovo presidente della Regione. Un presidente che però dovrà comunque fare i conti con numeri risicati, maggioranze da edificare ed equilibri interni che rimangono molto precari.

Perché nel centrodestra si è litigato – e anche parecchio – durante tutta la campagna elettorale, fino al pragmatico (e provvisorio?) «piatto» (arancini o arancine che siano) di non belligeranza al fotofinish. E adesso la quadra andrà trovata nel gioco ad incastri governo-parlamento. Primo vero esame per il neo presidente.

Chi questa quadra non solo non l’ha cercata, ma ha anzi fatto di tutto per restarne lontano è il budinoso centrosinistra/sinistra. Le rese dei conti interne al Pd, o fra il Pd e la sinistra, o fra il Pd e la sinistra e l’anomalia Orlando, hanno portato alla parcellizzazione del consenso, certamente non arginata – tutt’altro – dalla scelta di puntare su Micari. Persona a modo, rettore apprezzato, ma di fatto agnello sacrificale sull’altare di una partita che nulla aveva a che vedere con i reali, concreti e quotidiani problemi dei siciliani. Che hanno presentato il conto. Pesantissimo. Né il Pd renziano, in vorticosa recessione e fiaccato da una rumorosa e lessicalmente violenta diatriba interna, può più contare sulla stampella di Alfano, declassificata proprio nella sua Sicilia al rango di mero accessorio.

Pilatesco forse dare tutte le colpe a Fava, il cui onesto 6% non avrebbe certo spostato chissà quali equilibri. Non è del resto un caso che se Musumeci ha preso più o meno gli stessi voti delle sue liste, in quanto a voto disgiunto le contraddizioni nella piramide renziana hanno regalato qualche punto percentuale in più a Cancelleri, migliore del suo unico simbolo.

Insufficiente però per ribaltare le sorti del duello già pronosticato da tutti i sondaggi e gli exit poll (diamo atto questa volta ai sondaggisti di non aver cannato previsioni e proiezioni).

I grillini torneranno adesso ad affilare le armi delle contese d’aula, guerreggiando dai banchi dell’opposizione (e quel «vittoria contaminata» di Musumeci, pronunciato a caldo da Cancelleri, ne è l’antifona), capaci di raddoppiare i loro consensi ma incapaci di pescare nel malcontento degli astensionisti, rimasti immutati, anzi leggermente in crescita.

La ribellione politica e la rivoluzione civica sbandierate da Grillo, insomma, bastano per sottrarre consensi agli avversari, non certo per svegliare coscienze sopite o curare allergie al voto.

E adesso? Domenica, ad urne aperte, teorizzavamo la necessità di un metaforico sciame sismico (politico, sociale, economico, etico) per una Sicilia a cui la scossa Crocetta di cinque anni fa non ha prodotto alcun giovamento. La Sicilia della disoccupazione record e della sottocultura del pubblico impiego, del debito da oltre 5 miliardi nei confronti dello Stato e dell’avversione cronica alla via privata dello sviluppo, speculare a sacche di potere e interessi clientelari difficili da estirpare.

Musumeci è atteso da un compito arduo. Lasci ai gran visir delle segreterie partitiche il Risiko politico «dalla Sicilia a Roma» e si occupi fin da subito dei problemi veri di questa terra. Gli stessi che non a caso hanno fatto di lui, come del suo predecessore, il presidente di una Regione snobbata e ignorata da un siciliano su due.

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