E adesso basta. Basta parlare e straparlare di impresentabili, inciuci, alleanze, voli pindarici, salti della quaglia, passi del gambero, flashback, incendiari e pompieri. Oggi è tempo di votare. Quattro milioni e 600 mila elettori potranno decidere che Sicilia vorranno, sapendo da che Sicilia vengono.
Ma quanti di loro sceglieranno di seguire il teorema gaberiano («libertà non è star sopra un albero, libertà è partecipazione») e oggi si presenteranno ai seggi? Questa al momento è la grande incognita, se è vero che non c’è stato sondaggio della lunga vigilia che abbia discostato il partito dell’astensionismo dalla soglia della maggioranza assoluta. Come cinque anni fa.
Non è cambiato nulla da allora, dunque? Il 30 ottobre 2012, con Rosario Crocetta appena eletto presidente, questo giornale usciva con un editoriale dal titolo «La scossa». Parlavamo di protesta storica contro il sistema dei partiti e la cattiva politica, rappresentata soprattutto da quel 53% di elettori che avevano scelto la diserzione.
Additavamo la Sicilia della disoccupazione record, del sistema industriale rachitico, dei giovani in fuga, di anziani e disabili meno tutelati che altrove. Il tutto a fronte di una Regione cara il doppio di tutte le altre, con troppi dipendenti, in cui crescevano enti, strutture pubbliche, consulenze e masse di precari, in cui restava vivo il rapporto diretto fra consenso politico e concessioni di favori, incapace di fare da volano dello sviluppo o di favorire la crescita del sistema delle imprese, chiudendo la stagione dell’assistenzialismo pubblico e aprendo una via alla creazione di lavoro solido e duraturo.
Questo scrivevamo cinque anni fa, parlando di «scossa». Un lustro dopo, ci ritroviamo a raccontare di una Sicilia prima in Italia per numero di poveri e seconda solo alla Calabria per numero di disoccupati. Di una realtà in cui i Neet, cioè i giovani che non studiano, non fanno formazione e non lavorano, sono oltre il 40%, fanalino di coda di un Paese che è a sua volta (col 25%) fanalino di coda in Europa.
Non è un caso che la Sicilia sia al contempo ultima in Italia per tempo pieno nelle scuole e prima per numero di studenti che abbandonano precocemente gli studi. Dal lavoro che manca a quello che c’è, il panorama non è migliore. Perché il peso dell’occupazione reale in termini di economia e sviluppo è molto relativo. Colpa, manco a dirlo, di una straripante preponderanza del pubblico: il 40% della forza lavoro, infatti, fa capo al pubblico impiego, il quadruplo del Nord del Paese.
Il bersaglio è grosso, anzi grossissimo: il gigantesco apparato a libro paga di Palazzo d’Orleans, Palazzo dei Normanni e satelliti assortiti. Un quarto di tutti i dipendenti regionali d’Italia si trova in Sicilia (5 volte più della Regione Lombardia), addirittura un terzo di tutti i dirigenti. Oltre 18 mila dipendenti diretti (più i pensionati ancora a carico), oltre 45 mila impiegati nella sanità, oltre 23 mila forestali, oltre 7 mila addetti nelle controllate.
E ancora i precari disseminati ovunque e accorpati in uno sconclusionato dedalo di sigle o gli addetti alla formazione (che non c’è). Quasi impossibile, insomma, un calcolo preciso delle unità a carico di mamma Regione. Cosa produce tutto ciò? Nulla. Davanti a un Pil nazionale che torna leggermente a crescere, la Sicilia recita la parte della zavorra, frutto della sua annosa avversione politico-ideologica verso tutto ciò che richiama l’idea stessa di impresa privata.
Nel CentroNord, l’industria manifatturiera concorre alla formazione della ricchezza per il 21%, nel Mezzogiorno per il 12%, in Sicilia siamo a un misero 9%. E nel 2016, con l’industria nazionale (e meridionale) in parziale rivitalizzazione, quella siciliana ha perso altri 4 mila posti di lavoro.
Vogliamo per caso prendercela con le imprese se la loro produttività genera un valore aggiunto di appena 44 mila euro ad addetto contro i 71 mila euro del centronord? Vogliamo prendercela con le imprese se per realizzare un’opera pubblica in Sicilia occorrono in media 7 anni (nessuno fa peggio), contro i 4,5 della media nazionale? Vogliamo prendercela con le imprese se il gap infrastrutturale con il resto del Paese è ancora patologico?
Se la principale autostrada siciliana è ancora spezzata in due da un viadotto che ha miseramente ceduto e deve ancora essere rimesso in piedi? Se la principale direttiva stradale nord-sud – la Palermo-Agrigento – è un insostenibile susseguirsi di cantieri-lumaca? È colpa delle imprese se la politica della gestione rifiuti è stata fallimentare ai limiti del grottesco e si continuano ancora a pompare discariche mentre altrove la spazzatura da fastidio si è ormai da tempo tramutata in risorsa?
E smettiamola, vivaddio, di trastullarci con la favoletta della Sicilia perla del turismo: per presenze siamo noni fra le venti regioni italiane, mettiamo insieme 14 milioni di coraggiosi visitatori (il 3,8 per cento del totale nazionale), mentre il solo Veneto (Venezia e che altro?) arriva a 63 milioni.
Questa è la Sicilia che, cinque anni dopo «la scossa», torna al voto. Baloccandosi con dibattiti sulla legalità e patenti di antimafia, puntuali ad ogni tornata elettorale più dell’alba dopo il tramonto. Salvo poi, alla prova dei fatti, riempire le pagine dei giornali con torbide sinfonie di connivenze, malaffare, corruzione.
Una cosa appare certa. Chi risulterà vincitore oggi, si ritroverà domani - complice una legge elettorale tutt’altro che amica – a dover governare senza una maggioranza propria. Dovremo raccontare altri cinque anni di stucchevoli balletti, sfrenati equilibrismi, rumorose liti e pacchiane caciare da banco della politica al miglior offerente?
O possiamo illuderci di assistere ad una svolta reale – fra confronti e condivisioni – per il bene collettivo? Per questa Sicilia non basta una scossa. Serve un intero e prolungato sciame sismico. Politico, etico, economico.
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