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A Obama adesso servono i fatti

Per battere Romney, egli ha comunque bisogno di segnali positivi dall'economia entro novembre: invece, poche ore dopo il suo intervento, i dati sulla disoccupazione in agosto, sono stati una nuova doccia fredda

In un clima molto diverso da quello entusiasta e quasi messianico della Convenzione di Denver del 2008, che gli aprì la strada della Casa Bianca, Barack Obama ha cercato giovedì sera a Charlotte di modificare a proprio favore il tema centrale della campagna elettorale. I Repubblicani stanno cercando di trasformare il voto di novembre in una specie di referendum sull'operato del presidente, approfittando del fatto che ben 63 cittadini su cento ritengono che il «Paese è sulla cattiva strada» e oltre il 40 per cento giudicano Obama «non all'altezza del suo compito».
A questo fine, hanno perfino resuscitato la fatidica domanda che nel 1980 permise a Reagan di sconfiggere Carter: «State meglio oggi o quattro anni fa?». Il contrattacco dei Democratici consiste nel porre invece gli elettori davanti a una scelta tra due opposte filosofie di governo: da un lato quella di stampo socialdemocratico dell'attuale amministrazione, che ha varato una storica riforma sanitaria, salvato con soldi pubblici l'industria automobilistica e cerca con continui (quanto costosi) interventi statali di aiutare le classi meno privilegiate; dall'altro quella dello sfidante repubblicano, che predica un ritorno al liberismo, allo Stato minimo e al pareggio di bilancio attraverso severi tagli alla spesa sociale.
Altrettanto forti sono le differenze sul piano etico: i democratici hanno dato per la prima volta luce verde al matrimonio tra gay, ribadito la loro politica di totale apertura verso l'aborto e adottato una linea morbida verso l'immigrazione clandestina; i repubblicani, in cui è fortissima la componente evangelica, sono su posizioni diametralmente opposte. Nel suo discorso di accettazione, in cui ha difeso il suo operato ma soprattutto chiesto più tempo per risolvere una crisi economica che ha le sue radici nella presidenza Bush, Obama ha proposto con molta chiarezza il dilemma («È la scelta più chiara di sempre»), sorvolando sul fatto che, se anche dovesse vincere, si ritroverebbe con un Congresso, e forse anche con un Senato, a controllo repubblicano, che limiterebbero fortemente la sua libertà di azione.
Per battere Romney, egli ha comunque bisogno di segnali positivi dall'economia entro novembre: invece, poche ore dopo il suo intervento, i dati sulla disoccupazione in agosto, apparentemente positivi (da 8,3% a 8,1) ma peggiori del previsto, sono stati una nuova doccia fredda.
Se il presidente, pur rivendicando il rispetto di molti degli impegni assunti quattro anni fa, ha giocato prevalentemente in difesa, riprendendo solo per inciso il suo celebre slogan di quattro anni fa ("Yes, we can", sì noi possiamo, poi adottato anche da vari esponenti della sinistra europea), gli altri oratori si sono concentrati sugli attacchi a Romney e ai repubblicani, nel tentativo di dissuadere gli elettori indipendenti, che nel 2008 hanno votato in massa per il candidato democratico, dal cambiare bandiera. Qualcuno ha definito la maratona oratoria di Charlotte come «una guerra per il cuore del ceto medio». I più efficaci sono stati la first lady Michelle, che ha presentato il marito come una specie di eroe americano, il senatore John Kerry, che ha sottolineato i (presunti) successi della politica estera di Obama, e l'ex presidente Clinton, che da avversario del presidente nelle primarie del 2008 si è trasformato nel suo più grande sostenitore. Non è mancato il tradizionale sostegno di alcune star di Hollywood, come Scarlet Johannson, che avevano il compito di bilanciare la discesa in campo di Clint Eastwood al fianco di Romney. Tutti hanno avuto la loro dose di applausi, ma, al contrario di quattro anni fa, tra i delegati c'era più preoccupazione che trionfalismo.
L'ammissione di Obama, che ci vorranno anni, uno sforzo comune e molto senso di responsabilità per uscire dal tunnel ha lasciato il segno e i sondaggi, per quanto ancora leggermente favorevoli, non danno molto conforto. Il fascino del primo presidente nero è in gran parte svanito, le elezioni stavolta si decideranno non sul carisma, ma sui numeri.

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