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Afghanistan, la non gloriosa fine della guerra

Il cinquantunesimo morto italiano della guerra afghana potrebbe essere l’ultimo caduto nella strada che porta alla fine di un conflitto che fra poco più di un anno dovrebbe finire. Una fine non gloriosa di una guerra ambigua, come lo sono tutte quelle attuali.
È bene partire da una considerazione minore e sobria: le cose non cambierebbero molto se il cinquantunesimo soldato italiano caduto nella guerra in Afghanistan fosse stato ucciso da un errore di qualcuno nel maneggiare un ordigno invece che, come è più probabile, da un razzo scagliato dal nemico contro la base di addestramento per l'esercito e polizia afghana gestito da specialisti italiani. Anche una bomba che sfugge di mano a uno dei "nostri" in zona di operazioni causa una morte in combattimento. La causa della morte di Manuele Braj è dunque in ogni caso attribuibile a un atto di guerra. Di una guerra, questo sì, più complicata in vari modi e, in conseguenza, ancora più surreale di un'altra guerra. Perché il cinquantunesimo caduto italiano è camerata di destino del quattromillesimo americano o del duecentesimo inglese: spartisce con loro la sorte quanto mai triste degli ultimi caduti di una guerra che muore. L'Afghanistan oggi è nella fase di luce-ombra di tanti altri conflitti non risolti da un blitz o comunque dalla vittoria totale di uno dei belligeranti. Assomiglia al Vietnam degli americani, all'Indocina o all'Algeria dei francesi e, se si vuole, all'Afghanistan dei russi. C'è sempre un ultimo caduto sulle porte della pace. Nel caso che ci interessa oggi, tuttavia, il discorso è ancora più complesso perché alla pace, o almeno a un armistizio, si lavora attivamente da anni ormai, dalle due parti, in contemporanea con il proseguimento dei combattimenti e, in questo tipo di guerra, degli attentati terroristici. La Casa Bianca (perché è l'America che decide) conduce da tempo trattative per una soluzione negoziata e persegue contemporaneamente - e inevitabilmente e, aggiungerei, saggiamente - due strategie: una intensificazione parziale delle operazioni militari in alcune aree e i negoziati ormai apertamente in corso per una soluzione politica che non potrà assomigliare a una vittoria totale. E questo per motivi incontestabili: gli Stati Uniti sono andati in Afghanistan immediatamente dopo la strage terroristica a New York di Al Qaida condotta da Bin Laden che aveva le sue basi in Afghanistan. È sul terreno di questo tipo di conflitti che si sviluppò l'idea di una ulteriore, diversa missione: il rovesciamento del regime talebano, che era uno dei più retrivi, fanatici e feroci nell'intero mondo islamico. Il primo obiettivo è stato raggiunto faticosamente e coronato dall'uccisione di Bin Laden. Ci sono voluti dieci anni, ma ad Obama è riuscito il "colpo" che Bush aveva tentato invano. Ma l'altro obiettivo, ancora più arduo per ragioni oggettive storicamente radicate (finirono così le avventure militari britannica alla metà del diciannovesimo secolo e sovietica nell'ultimo terzo del ventesimo), potrebbe essere mancato e l’operazione concludersi con il ritiro. Giustificabile con l'argomentazione che l'obiettivo principale era stato raggiunto: quello che resta di Al Qaida non si trova più in territorio afghano. L'organizzazione è indebolita e comunque ha traslocato altrove, per esempio nel Pakistan. Ci sono dunque tutti i motivi - e se si vuole tutte le scuse - per chiudere il capitolo. Si va indebolendo anche l'ultima opposizione a Washington, quella dei repubblicani che accusano di solito Obama, per motivi elettorali, di "debolezza" all'estero. Ormai anche gli elettori più conservatori hanno perso entusiasmo per Kabul e dintorni. Preferiscono parlare d'altro, per esempio dell'Iran o della Siria. Le critiche vengono, semmai, dal quadrante opposto, dai democratici più "liberali" che accusano il presidente di procedere troppo lentamente sul cammino del compromesso. È uscito poche ore fa il libro di un esperto dal titolo significativo, The War Within the War for Afghanistan ("La Guerra dentro la guerra") la cui tesi è che alcuni fra i più giovani consiglieri dell'Amministrazione Obama appena insediata impedirono un progetto di pace disegnato da un diplomatico esperto e illuminato come Richard Holbrooke che avrebbe potuto chiudere la partita "onorevolmente" almeno due anni fa. Polemiche interne, attuali in vista della chiusura comunque del capitolo che avverrà entro poco più di un anno. È questione di tempo, dunque, ed è comprensibile che alcuni fra i governi alleati dell'America sentano la tentazione di "staccare" con qualche anticipo. Lo ha detto la Spagna, lo ha detto e ribadito la Francia, prima con Sarkozy e ora con Hollande. La parola fine (di questo capitolo, non del problema e non della storia) si intravvede già in fondo al tunnel. Non sarà gloriosa. Tutte le guerre di oggi sono intrise di ambiguità. La Washington Post ha pubblicato di recente la memoria di un veterano del Vietnam, dell'Irak e dell'Afghanistan che ora guida una macchina che reca sui paraurti una striscia di carta con la scritta "Sostieni le nostre truppe". Stampata in Cina.

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