Il contesto in cui si svolge lo «sciopero dei calciatori» è tale da suscitare, al di là dell'analisi dei torti e delle ragioni, alcune riflessioni. In Italia - come del resto in molti altri Paesi - il calcio non è soltanto uno sport: è una «vita di riserva», un mondo alternativo che consente a tanti di sfuggire al grigiore senza prospettive di quello reale e di sperimentare emozioni che la stanca ripetitività di quest'ultimo non consentirebbe. Sulle sorti della propria squadra si proiettano speranze, timori, progetti, entusiasmi, che accompagnano il tifoso non soltanto per la circoscritta durata delle partite giocate, ma nel corso di tutta la settimana, a partire dal lunedì, quando le si commenta «a caldo» con i colleghi, lungo i giorni successivi, con le discussioni, le valutazioni, i pronostici sull'incontro successivo, fino al giorno - sabato o domenica - in cui questo ha poi effettivamente luogo.
Il fenomeno non è nuovo, ma, da quando la nostra società ha registrato un forte ridimensionamento delle grandi passioni che tradizionalmente avvincevano il cittadino medio - da quella politica a quella religiosa - si è ulteriormente evidenziato.
Nella disaffezione alle ideologie, di fronte alle ombre sempre più dense che in questi ultimi anni minacciano la stabilità economica e mettono in dubbio il futuro, il calcio si è via via imposto come una specie di «nuova religione», di facile accesso grazie anche alla sua alleanza con la televisione. Per buona parte dell'anno, non c'è quasi più serata in cui non sia possibile seguire una partita, sia essa di campionato, di Europa League, di Champions o della Nazionale. E, quando non ce ne fosse nessuna che ci riguardi direttamente, si seguono ormai anche quelle dei campionati stranieri. Al punto che ormai, prima di programmare convegni, conferenze, spettacoli, gli organizzatori sono obbligati a consultare il calendario calcistico, per non rischiare di dar luogo a coincidenze che porterebbero la loro iniziativa a un sicuro insuccesso.
Questo quadro spiega il clima di lutto nazionale in cui, molto più che in occasione della protesta di altre categorie, si è creato per questa dei calciatori. E si capisce l'amarezza di tante persone che - reduci da un'estate con vacanze ridotte al minimo per motivi economici, minacciate dalla disoccupazione e disorientate dal caos della politica e dei mercati - aspettavano con ansia, finalmente, di potersi nuovamente «distrarre» grazie all'avvio del campionato e vedono ora sfumare l'unico pensiero piacevole che era possibile alimentare in un simile panorama. E tuttavia - questa è la seconda considerazione - forse quanto sta accadendo, per quanto spiacevole, può servire a tutti ad aprire gli occhi sul fatto che il preteso mondo «alternativo» non è affatto il paese delle fate, ma assomiglia in sostanza a quella realtà quotidiana da cui cerchiamo di fuggire.
A dire il vero ci avevano già pensato i reiterati scandali di «calciopoli» a mettere in guardia i fiduciosi ed entusiasti tifosi. Chi voleva, però, poteva sempre chiudere gli occhi e godersi la sua partita senza porsi troppe domande. Ora, invece, l'intreccio perverso degli interessi, delle beghe, delle incomprensioni che stavano da tempo dietro il mondo del calcio, ha prodotto il suo esito finale: è la stessa partita che, ormai, non c'è più.Può anche essere un salutare risveglio. Non esistono mondi paralleli in cui rifugiarsi. La controversia tra l'Associazione dei calciatori e la Lega ha avuto esattamente lo stesso andamento che da anni vediamo seguire alla politica italiana: tutti contro tutti, in una ridda di accuse reciproche, senza che sia quasi possibile, al cittadino, capire quale sia la verità e con la sensazione che, alla fine, ognuno dei contendenti sia disposto a sacrificare il bene comune pur di affermare il proprio punto di vista. Particolarmente impressionante il capitolo economico della controversia, centrato sul pagamento, da parte dei calciatori, di quel «contributo di solidarietà» che in questo momento viene chiesto a tutte le categorie del Paese (secondo molti soprattutto a quelli che già da tempo pagano fin troppo). Pur non essendo chiara del tutto la loro posizione in merito (ufficialmente dichiarano di essere pronti a darlo), sono evidenti le resistenze e le dilazioni dei giocatori su questo punto (altrimenti, perché scioperare?). Colpisce dolorosamente che persone i cui guadagni sono stratosferici (stiamo parlando di giocatori di serie A) offrano questo spettacolo, in un momento in cui è in discussione l'ipotesi di tassare le pensioni di reversibilità (quelle delle vedove). Torti e ragioni, in questa vicenda, sono aggrovigliati e non possiamo pretendere di dare giudizi assoluti. Ma forse i campioni del calcio dovrebbero pensare un po' di più ai ragazzini che, sui campi di periferia, giocano portando maglie col loro nome e li considerano i loro modelli. E che hanno diritto di trovare in loro degli esempi di solidale responsabilità, e non soltanto dei vuoti idoli mediatici.
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