Il senatore Bossi torna a celebrare il celodurismo che ha fatto la fortuna del Carroccio. La difesa del sistema pensionistico è stata affidata al «pugno duro» della Lega. A quanto pare la minaccia ha funzionato perché il tema dell'indennità per gli anziani è uscito dall'agenda del governo. Da quanto si capisce il Senatur, nei momenti di maggior difficoltà, torna al vecchio linguaggio di lotta e di governo, come usava dire una volta. Queste intemperanze, però, non sono certo un vantaggio per il Paese. Casomai ripropongono il tema dell'affidabilità. Bossi teme la perdita di contatto con il proprio elettorato. Così ricomincia a scalpitare. Sceglie il frangente sicuramente meno adatto. Usa atteggiamenti e linguaggi scomposti proprio nel momento in cui sarebbe necessaria la massima compattezza. Guarda esclusivamente alle valli del nord mentre si moltiplicano i richiami alla solidarietà nazionale. Primo fra tutti il Presidente della Repubblica, Napolitano. Poi la Bce e i governi dell'Unione europea. Anche Berlusconi chiede la mobilitazione delle forze politiche per affrontare la crisi economica.
Nessuno, ovviamente, discute il diritto della Lega a difendere il suo bacino elettorale. Non è ammissibile, però, farlo a spese delle imprese, dei giovani e, in definitiva di tutto il Paese. Paradossalmente la posizione di Bossi appare ancora più radicale di quella della Cgil. Susanna Camusso, pur annunciando nuove mobilitazioni di piazza contro la manovra, non chiude del tutto le porte alla riforma delle pensioni. Parla di «flessibilità in uscita» per non penalizzare chi ha bisogno di uscire e non blocca «le opportunità per chi deve entrare» nel mondo del lavoro. Più ragionevole del Carroccio che prosegue sulla sua strada incurante del fatto che, ancora oggi, il sistema pensionistico italiano è il più generoso in Europa. A cominciare dalle pensioni di anzianità che consentono l'uscita dopo aver maturato almeno trentacinque anni di contributi. Un istituto che esiste in Italia e in Grecia. Non in Germania, non in Francia e nemmeno nella Spagna del socialista Zapatero.
E allora è necessario essere chiari. Le nuove regole non toccano gli assegni in corso. Vuol dire che non sarà tolto nulla a nessuno. Nemmeno ai 500 mila baby pensionati che hanno lasciato il lavoro ben prima di aver compiuto 50 anni. Talvolta a trentacinque dopo aver lavorato 14 anni sei mesi e un giorno. Accadeva alle dipendenti dello Stato con figli a carico. Avevano anche il vantaggio, lasciando l'attività, di incassare un assegno pari allo stipendio. Complessivamente il costo degli abbandoni precoci (bloccati da Amato nel 1992) è di 9,5 miliardi l'anno. Una cifra infinitamente superiore alle cosiddette «pensioni d'oro» il cui onere complessivo supera di poco i 300 milioni. La demagogia dilagante ovviamente si scaglia contro questi assegni molto pesanti senza tener conto di due elementi: l'eventuale tassazione aggiuntiva non darebbe benefici alle casse dello Stato vista l'esiguità della base imponibile. In secondo luogo indennità tanto elevate, in genere, sono assistite da contribuzioni altrettanto robuste. Viceversa i «baby pensionati» ricevono dallo Stato ben di più dei pochi spiccioli che hanno versato. Qualcuno propone un contributo, seppure minimo, a loro carico. Giusto forse in astratto. Impossibile in concreto perché sarebbe la lesione di un diritto acquisito. Lo stesso principio che impedisce di toccare gli assegni in corso. Diverso il discorso per quelli futuri. In questo caso non ci sono diritti ma solo aspettative che come tali possono variare. E le prime previsioni che spingono a cambiare riguardano l'età media. Quarant'anni fa, per gli uomini, si aggirava intorno ai 73 anni, dato che giustificava il limite a 65 anni. Lasciare invariato il tetto mentre la sopravvivenza si avvicina oggi agli 80 anni significa trasferire sulle spalle dello Stato oneri aggiuntivi. Quindi più tasse, minori consumi e indebolimento dell'attività economica. I primi a pagare sono i giovani che, a differenza dei padri, non hanno tutele sindacali e spesso sono anche troppo giovani per votare.
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