ROMA. Come sopravvivere fra successo planetario, un manager truffaldino, crisi personali e voglia di tornare al top, nella boy band più di successo della storia. Lo spiega il documentario Backstreet Boys: 'Show 'Em What You're Made Of' di Stephen Kijak, realizzato per i 20 anni del gruppo, che ha venduto dal 1993 oltre 130 milioni di album nel mondo, ha ottenuto una stella sulla Hollywood Walk of fame e 380 milioni di visualizzazioni per i video online. Il film, che arriva in sala oggi e domani con Microcinema, si conclude con la performance unplugged dei Backstreet Boys, lo scorso febbraio a Londra, per l'uscita del documentario in Gran Bretagna.
Seguendo la preparazione del loro ottavo album in studio, 'In a World Like This', e del tour mondiale (circa 190 date fra Nord America, Sud America, Europa, Asia, Australia e Medio Oriente) Kijak compie un viaggio nella storia musicale e i percorsi personali dei cinque componenti della boy band, A. J. McLean, Howie Dorough, Nick Carter, Kevin Scott Richardson (che aveva lasciato il gruppo nel 2006 e ci è tornato nel 2012) e Brian Littrell. A metterli insieme, da adolescenti o poco più, nel 1992, 'reclutandoli' attraverso dei provini, è un imprenditore di Orlando, In Florida, Lou Pearlman (condannato nel 2008 a 25 anni di prigione per frode, bancarotta e riciclo di denaro) che, colpito dal successo dei New kids On The block, si lancia nel mondo della musica puntando sulle boy band (si deve a lui anche la nascita degli Nsync di Justin Timberlake).
Una nuova vita per i cinque ragazzini, che si formano in una gavetta tra concerti nelle scuole, lunghe preparazioni di coreografie e numeri corali. Il primo grande successo per loro arriva in Europa, e solo dopo negli Stati Uniti, diventando nel giro di tre anni sex symbol (grazie anche ai video patinati tipici del genere, parodiati in seguito dai Blink 182, ndr) e fenomeni pop con milioni di fan urlanti in tutto il mondo.
Iniziano però ad esserci le prime fratture: come il contrasto con Pearlman, a cui i ragazzi fanno causa dopo essersi resi conto di quanti soldi abbia sottratto al gruppo; i problemi di alcool e di droga di A.J; il logoramento dovuto al non fermarsi mai tra tour e studio di registrazione; il momentaneo addio di Richardson e la decisione di andare avanti anche senza di lui.
Il passato, raccontato anche da molto materiale inedito, si mescola con il presente. Un passaggio affidato al ritorno dei cinque cantanti nei luoghi della propria infanzia tra ricordi a volte traumatici (e spesso causa di pianti e abbracci collettivi, ndr) e alla cronaca della voglia e delle difficoltà di mantenere l'armonia. Tutto è più difficile quando le coreografie tanto amate dalle fan si devono preparare da 30enni e 40enni e bisogna affrontare ostacoli come i problemi alla voce di Brian.
«Questo film non è solo sulla musica e sui fan - spiega il regista nelle note di produzione -. Quando le urla sono
terminate, rimanevano cinque persone, cinque uomini cresciuti membri di una boy band, che avevano forgiato un legame incredibile, sigillato dal loro grande talento come cantanti che ci hanno permesso di osservare da vicino questa unione, questa famiglia che è rimasta in piedi per più di 20 anni». «Non stiamo cercando di apparire qualcosa di diverso da quello che siamo - sottolinea Littrell -, ma ci concentriamo su qualcosa di leggermente diverso. Ora abbiamo la libertà di fare tutto quello che vogliamo ed è una sensazione eccitante».
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