"Tutti in piedi", diretto e interpretato da Franc Dubosc, è una piccola sfida vinta. Quella di mettere in commedia (in cui i francesi ci battono ultimamente: 2 a 0) la disabilità e i suoi complicati sentimenti senza offendere mai davvero chi ha un disagio fisico. Anzi mettendo in evidenza come questo a volte possa essere un volano per una vita anche più piena ed autentica. Un merito di questa commedia sentimentale che va sicuramente a Dubosc e alla sua capacità di essere un attore che evoca a volte il candore di Chaplin e Tati e a cui alla fine si perdona tutto. In 'Tutti in piedi', Dubosc interpreta Jocelyn, quasi un fumetto per impacci e prepotenza infantile, ma uomo d’affari di successo ricco, inguaribile seduttore e bugiardo incallito. Un giorno viene scambiato per disabile dalla vicina di casa della defunta madre, dalla giovane e sexy Julie. Per conquistarla, dopo aver più volte posato gli occhi sulla sua scollatura, Jocelyn decide di approfittare del fraintendimento e la sedia a rotelle diventerà la sua compagna più fedele. L’equivoco, che inizialmente sembra essere solo un gioco, diventa problematico quando Julie gli presenta sua sorella Florence (Alexandra Lamy) che è davvero costretta su una sedia a rotelle a seguito di un incidente stradale, una donna che comunque non ha perso affatto la voglia di vivere: è campionessa di tennis per disabili e secondo violino in una famosa orchestra. Per Jocelyn è ormai doppia vita: una in piedi e una sulla sedia a rotelle. E per lui anche un 'problema dei problemi' non da poco: è innamorato e ha paura di perdere la bella Florence dicendogli la verità. «Questo film nasce da una motivazione doppiamente personale - spiega il regista - . Un giorno, a causa dell’età e dell’impossibilità di camminare, mia madre si ritrovò su una sedia a rotelle. La sedia, simbolo di handicap, divenne una soluzione che le permetteva finalmente di riprendere ad uscire. Diceva, però: 'Non posso andare al mercatino della chiesa, perch lì csono le scale'. Fu una rivelazione. Quello strumento che dapprima era sembrato una benedizione - continua Dubosc - era improvvisamente diventato un ostacolo. Pensai a tutti quei disabili che ogni giorno si trovano ad affrontare questi problemi. Inoltre, avevo sempre desiderato scrivere una storia d’amore che non si basasse su differenze culturali o sociali, ma fisiche. E' una domanda che mi ha sempre affascinato: cosa succederebbe se ci si innamorasse di una persona disabile? La proiezione del futuro, come minimo, si complicherebbe molto. L’amore, alla fine, si dimostrerebbe più forte delle considerazioni razionali? Io credo di sì ed è il motivo per cui ho deciso di fare questo film». Sul rischio infine di toccare un tema così delicato, spiega l'attore-regista: «All’inizio pensavo a questo problema ad ogni pagina che scrivevo. Poi, però sono entrato nella storia, e ho dimenticato tutto. Proprio come succede nella vita. Quando incontri qualcuno con una disabilità all’inizio stai attento a tutto quello che dici, ma una volta che la relazione ha preso piede smetti di farci caso. E comunque la mia intenzione non è mai stata di deridere nessuno, spero che questo si capisca chiaramente».