ROMA. 50 anni fa Bob Dylan pubblicava «Blonde on Blonde», il primo doppio album della storia, universalmente riconosciuto come uno dei capolavori assoluti della musica popolare. L'influenza che quest'opera ha avuto è incalcolabile, non solo perchè, raggiungendo vette ineguagliabili sia dal punto di vista della qualità letteraria dei testi che di quella strumentale, ha fissato il canone della musica d'autore, diventando una sorta di ossessione per generazioni di «dylaniati», ma anche perchè ha rappresentato un passaggio fondamentale nell'evoluzione del rock, allargando i confini della contaminazione con il folk, in stile Byrds, fino ad arrivare nei territori della psichedelia. «Blonde on Blonde» contribuisce di fatto a cambiare l'idea stessa di album, che non è più una raccolta di singoli ma un'opera a sè, pensata e costruita per uno sviluppo in più capitoli che sfrutta la maggiore durata di un lp, inaugurando l'era dei «concept album». Tutto ciò non impedisce di notare che questo disco miracoloso contiene alcune delle canzoni più belle e famose del canzoniere dylaniano e della storia del rock: «Visions of Joanna», «I Want You», «Just Like a Woman», «Rainy Day Women #12 & 35», «Absolutely Sweet Mary», «Sad Eyed Lady Of The Lowlands», la ballata folk di undici minuti che occupa la quarta facciata e che il critico Paul Nelson ha definito: «Una celebrazione della donna come opera d'arte, come figura religiosa, come oggetto di eterna maestà e meraviglia». Ciò che colpisce è che all'epoca di «Blonde on Blonde», che è il settimo album della sua carriera, Dylan aveva 25 anni. L'anno prima c'era stata la svolta elettrica, segnata dalla dura contestazione al Festival Folk di Newport, dove si era presentato con la Paul Batterfield Band, e dalla pubblicazione di «Highway 61 Revisited». C'è solo da rimanere a bocca aperta se si pensa non solo alla giovane età ma anche al fatto che durante le session di «Blonde on Blonde» Dylan era impegnato in tour massacrante iniziato praticamente subito dopo l'uscita di «Highway 61 Revisited». Con lui c'era una band formata tra gli altri, da Al Kooper, formidabile organista che ha avuto un ruolo chiave nella definizione del sound del doppio album, e dai componenti degli Hawks, il gruppo con Robbie Robertson, Levon Helm, Rick Danko, Garth Hudson e Richard Manuel che accompagnava Ronnie Hawkins e che poi formerà «The Band». Negli intervalli del tour Dylan cominciò le session di «Blonde on Blonde» a New York ma, nonostante il contributo di sostanza psicotrope, la bravura dei musicisti e un' incredibile e rinnovata vena letteraria, le cose non andavano per il verso giusto. Su suggerimento del produttore Bob Johnston (lo stesso di «Highway 61 Revisited», ma anche di «Sounds of Silence» di Simon & Garfunkel e di «At Folsom Prison» di Johnny Cash), nonostante la fiera opposizione di Albert Grossman, il manager di Dylan, si trasferirono a Nashville per usare alcuni dei migliori session men degli studi locali insieme a Robbie Robertson e Al Kooper. Così tra febbraio e marzo del 1966 prese forma il capolavoro: in stato di grazia, Dylan scrive testi che hanno una profondità, una ricchezza di fonti e riferimenti, una capacità evocativa e una genialità metaforica fino ad allora sconosciute al rock e che ancora oggi restano un modello praticamente irraggiungibile. Attorno a lui, sotto la guida di Johnston, Al Kooper e Robbie Robertson i musicisti trasformano in oro idee e spunti del leader e così prende forma uno degli album più belli e importanti di sempre. 50 anni dopo quel disco rivoluzionario (uscirà il 20 maggio), Bob Dylan sta per pubblicare «Fallen Angels», un nuovo atto d'amore nei confronti del repertorio di Frank Sinatra. Ennesimo coupe de theatre della carriera di un genio che è sempre stato un mago nel mescolare le carte della sua carriera.