(ANSA) - ROMA, 08 FEB - Ombre, specchi che duplicano e moltiplicano i volti, immagini riflesse dalle vetrine, gesti e sguardi della gente comune e della buona borghesia, bambini e persone senza fama, destinate a non lasciare segni del loro passaggio, e la presenza ricorrente dei quotidiani, un tema che si sarebbe trasformato in una ossessione. E' il mondo su cui per decenni si è posato l' occhio di Vivian Maier, la bambinaia che dagli anni Cinquanta coltivò tra New York e Chicago la passione per la fotografia accumulando un patrimonio di centocinquantamila scatti di cui non si è mai saputo nulla fino al 2007, due anni prima della sua morte. Le scatole che contenevano i rullini da sviluppare di parte dell' archivio, custodito in un box di cui la fotografa aveva smesso di pagare l' affitto, vennero messe all' asta e comprate da un giovane agente immobiliare, John Maloof, che svelò così un tesoro unico nella storia della fotografia. A raccontare il mistero e la scoperta di un talento tanto particolare sono le 270 immagini riunite nella prima grande retrospettiva che i Musei Reali di Torino dedicano fino al 26 giugno all' artista, antesignana silenziosa del periodo d'oro della street photography. ''Vivian Maier ha abbracciato la vita con una onestà e sincerità che si riflettono nelle sue foto. Nella storia del ventesimo secolo è l' unica tra le invisibili che è riuscita a diventare una icona'' osserva la curatrice Anne Morin. La Sale Chiablese del complesso museale svelano in percorso affascinante della ricerca condotta dalla maestra dello scatto parallelamente al lavoro di bambinaia e governante svolto per 40 anni. ''Vivian Maier inedita'', che arriva dopo la tappa al Musèe du Luxembourg di Parigi e ad agosto sarà a Seoul, aggiunge per la prima volta una serie di immagini di Torino e Genova del 1959 in cui le città fanno da cornice all' interesse per le persone. L' occhio dell' artista ha ritratto la coppia di anziani italiani che campeggia in questa sezione con lo stesso intento riservato ai soggetti delle strade di New York, coglierne l' essenza. Gli autoritratti è uno dei suoi temi principali di studio, fatto di cinquemila pose, dalla ripetizione del volto riflesso negli specchi, alle ombre che tagliano o occupano interamente la scena, agli occhi che non fissano mai l' obiettivo. ''Il suo interesse non era per il ritratto fisiologico o il viso - spiega Morin -. E' come se avesse seminato indizi per dire alla società del sogno americano 'mi avete dimenticata e annullata ma io ci sono, guardatemi nelle mie foto''. Resta da chiarire perché dopo aver raccolto così tanto materiale non abbia mai voluto mostrarlo. ''La fotografia è un territorio di libertà. Non cercava la pubblicazione. Per lei fotografare era una evasione del suo mondo quotidiano, di far dimenticare la sua condizione di domestica. Era l' unico momento in cui esisteva e poteva esprimersi''. Vivian Maier era una autodidatta traeva la sua cultura visuale da cinema, giornali, riviste. Il cinema fu, anzi, un percorso parallelo. Dai suoi filmati sulla ''folla solitaria'' - in mostra ce ne sono dieci - estrapolava spesso i fotogrammi e gli spunti per le sue foto. Nella foresta urbana la strada era il suo terreno di caccia, Central Park a New York il palcoscenico dove trovare attori e comparse di ogni tipo. Nei ritratti il soggetto viene quasi preso di sorpresa per impedirgli di mettersi in posa. Maier faceva una, due, tre fotografie ma poi sceglieva sempre la prima considerandola più autentica. Con il suo scatto rapido sapeva prevedere il gesto e ciò che stava per accadere. In lei, nata a New York con legami familiari difficili in Francia dove visse per alcuni anni, confluiscono i linguaggi della fotografia umanista di Doisneau e la street photography americana. La mostra, prodotta da Ares e dai Musei Reali, ha il sostegno del gruppo del lusso Kering tramite il progetto Women in motion per valorizzare il talento delle donne nell'arte e nella cultura. ''Nella storia scritta dagli uomini - osserva la curatrice -. le grandi artiste tendono ad essere cancellate dalla memoria, vengono dimenticate in fretta. Dare visibilità a Vivian Maier è un dovere morale''. La tata della street photography morì a 83 anni in una casa di cura nel 2009. Pochi anni prima l' avevano trovata in miseria i fratelli Gensburg che lei aveva accudito per 11 anni e l' avevano aiutata a trovare un alloggio. Aveva chiuso con la fotografia nel 1999. Come aveva fatto in passato accatastando in un vero disturbo da accumulo i giornali immortalati in decine di rullini, riservò anche gli ultimi scatti ai quotidiani, aperti a terra e fotografati in maniera ossessiva pagina per pagina. Le foto degli anni Cinquanta documentavano la cronaca, qui scrivono il finale amaro della storia. (ANSA).