FIRENZE - Ci sono silenzi che parlano e poi si sciolgono in musica e gesti fissati per sempre nel marmo che riprendono vita e diventano sensuali e coinvolgenti, come ci sono immagini che prendono la parola rispecchiandosi in pagine di grandi romanzieri classici. Accade durante la visita a un museo da parte di scrittori che vanno da Roddy Doyle a Dan Paterson, da Ali Smith e Tim Winton a Julian Barnes o William Boyd e molti altri, passando dalla Frick Collection di New York all'Opificio delle pietre dure di Firenze, dal Musée Rodin di Parigi al Leopold Museum di Vienna, ma anche il grande Prado di Madrid, come la piccola Villa San Michele a Capri o il Museo degli ABBA a Stoccolma.
Oggi i musei, spesso grandiosi edifici spettacolari, sono sempre più arricchiti da interventi elettronici per esaltare e suscitare il coinvolgimento dei visitatori, abituati al Web e alla velocità di rapide visioni ad effetto. Un tempo avevano comunque la loro interattività, come l'ha qualsiasi opera d'arte, da un quadro a un libro, se la osservi con attenzione e ti fai coinvolgere dalla verità della sua creazione artistica, che ti parla del passato nel tuo presente che guarda al futuro.
Il libro ''PEZZI DA MUSEO'' a cura di MAGGIE FERGUSSON (ADELPHI, pp. 270, 16,00 euro), firmato da ventidue grandi scrittori che ci parlano ognuno del loro museo più amato, spesso un museo minore, vuol farci riscoprire quel rapporto più profondo, emozionante e senza filtri tra chi osserva e chi ha creato qualcosa magari secoli prima, tramandandoci la sua percezione del mondo.
Naturalmente qualcosa nel tempo è cambiato e i luoghi d'esposizione di una volta, che avevano fatto assumere alla parola museo nel senso corrente quell'idea di noia, di polveroso, di poco senso, ora sono luoghi luminosi, accoglienti, con le opere ben esposte, magari anche in modo abbastanza spettacolare, e spiegate senza sussiego (si pensi alla trasformazione da sorta di magazzino ottocentesco alla realtà attuale che gioca su spazi e luci del Museo Egizio di Torino).
Così è nata l'idea di far tornare scrittori (non studiosi d'arte) in musei che li avevano suggestionati da giovani per rivisitarli e raccontare cosa gli piaceva adesso, intrecciandolo con i fili della memoria, come spiega la curatrice del volume Maggie Fergusson. Ecco così dei luoghi con un senso particolare, dei contenitori di opere che si espongono e arrivano a noi come messaggi dal passato, che suscitano riflessioni particolari in questi visitatori d'eccezione, riflessioni storiche e culturali, riflessioni emotive, generali come legate alla propria esperienza o ricerca personale.
Bernes ci racconta il suo rapporto con la musica e in particolare ''la fredda eppure turbolenta melanconia'' che da adolescente scopre in quella del compositore finlandese Sibelius, tanto da voler un giorno visitare fuori Helsinki la sua casa-museo per capire, nel luogo di incontro tra arte colta e vita pratica, la scelta del silenzio fatta a un certo punto da questo musicista o scoprire i colori dei mobili della sua cucina per lui corrispondenti a una tonalità musicale (per esempio: verde/Fa maggiore, giallo/Re maggiore). Diversissima e molto divertente, per restare in ambito musicale, invece la visita al museo ABBA di un giornalista della BBC, Watthew Sweet, sulle tracce delle popstar celebri per un successo mondiale come 'Mamma mia!'', ricordando momenti della propria vita di ragazzo legati all'ascoltato dei loro dischi.
Solo per fare qualche altro esempio, ecco allora la scrittrice inglese Allison Pearson (''Ma come fa a far tutto?'', bestseller diventato film con Jessica Parker) che si sente rimescolare tutta davanti al celebre ''Bacio'' di Rodin, scultura che la riporta all'emozione della sua prima ''goffa e coinvolgente pomiciata con Dave sulla bitorzoluta brandina di un dormitorio'' durante una gita scolastica a Parigi: ''Il primo bacio non si scorda mai''. E se John Lanchester al Prado, davanti al 'Trionfo della morte' di Bruegel, capisce che chiunque, anche la persona più digiuna d'arte, capirebbe che si tratta e cosa è un capolavoro, Ali Smith va alla riscoperta della villa di Alex Munthe a Anacapri coinvolta da quel casalingo museo senza etichette, ''luogo così splendido, colorato e luminoso, in cui l'enigma più che mai implica l'oscurità. Munthe non voleva la musealità, voleva il gesto leggero e birichino, il vitale cambiamento di forma, l'atto dell'immaginazione''.