ROMA - ''Non voglio che le persone entrino in questa mostra cercando l'Africa. Voglio entrino e pensino a se stesse''. Così Simon Njami, scrittore, direttore artistico della XII Biennale di Dakar e della Biennale Fotografica di Bamako, oltre che curatore del primo Padiglione africano alla 52/a Biennale di Venezia, spiega il titolo di I is an other / Be the Other, rassegna collettiva con cui dal 19 marzo al 24 giugno porta a La Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma le opere di 17 artisti di origine africana, ma di formazione e ispirazione internazionale. Dalle sculture in piccoli legni di Nick Cave al Purgatorio ''disegnato'' di perline di Bili Bidjocka o le fotografie dei volti nero catrame di Phyllis Galembo, al centro è il rapporto con l'ignoto. E la maschera, per Njami punto di partenza per indagare la relazione con l'altro, elemento che mentre nasconde già allude a qualcosa di diverso, fuori dal conosciuto. La mostra è anche la prima tappa di una stagione dedicata all'Africa, che all'indomani della II Conferenza Italia Africa organizzata dal Ministero degli Affari Esteri e dalla cooperazione internazionale, vedrà dal 22 giugno al Maxxi anche l'esposizione African Metropolis. Una città immaginaria, curata sempre da Njami con Elena Motisi.
''Non so cosa sia l'Africa, tutti abbiamo a che fare con l'Africa. Qui ho portato degli artisti contemporanei'', racconta Njami (che comprende benissimo l'italiano), citando versi del ''filosofo Sting'', mentre alle sue spalle si lavora in maniera concitata a sballare casse e allestire le opere. ''Per noi - spiega la direttrice della Galleria Nazionale, Cristiana Collu - questa è la mostra più importante della stagione. Non guarda alla cronaca. E' una mostra che non scende a compromessi, non chiede permessi a nessuno, ne' racconta storie attraverso la voce di qualcun'altro. Lo fa attraverso quella di chi le ha vissute, mettendo in campo temi come l'altro, l'alterità, la differenza, che questo museo frequenta da sempre, soprattutto negli ultimi due anni''. Un viaggio in 34 opere che intrecciano mitologia, gioco, ironia, elementi visionari, dalla labirintica Divina Commedia di Maurice Pefura, dove le pagine che compongono le pareti hanno iscrizioni visibili sono da certi angoli, al mondo in mutamento degli scatti di Jane Alexander, il pantheon vudù cubano di Wilfredo Lam, l'arte tessile di Igshaan Adams o la Venus Nigra di cera e perle di Gille Gacha. ''Non è una mostra con un messaggio - prosegue Njami - Il mio invito è ad attraversarla, a considerare le opere un'unica partitura'', a partire dal concetto di maschera. ''Noi non siamo quello che rappresentiamo: io stesso quando torno in Camerun, mio paese d'origine, vengo considerato Svizzero perché lì sono nato. L'altro? Non esiste - dice - contrariamente a quanto affermano i discorsi politici e ideologici, quell'altro che viene brandito come uno spauracchio, un drappo rosso sotto il naso del toro è una fantasia che a forza di essere raccontata, come una vecchia storia di cui non ricordiamo più l'origine, improvvisamente diventa verità''. Quanto all'Italia, ''è affascinante la vita politica qui, piena di sorprese - dice, citando il Chianti come Berlusconi o la Lega - Non so quale governo avrete, ma una strana malattia sta attraversando l'Europa. La crisi vera è pensare che sia sempre colpa dell'altro. Il populismo vince qui come in Francia. L'Italia è solo più spettacolare''.
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