Che si tratti di radici artificiali a sostegno di denti singoli, di ponti più o meno estesi o di ricostruzioni di un'intera arcata, gli impianti dentali in titanio sono la più diffusa modalità per sostituire denti naturali persi. Si stima che circa 15 milioni gli italiani ne abbiano almeno uno e ogni anno in media 2,5 milioni di interventi vengono eseguiti in Italia. Non tutti gli impianti, però, sono uguali e il dentista deve saper trovare la soluzione più adatta al singolo paziente.
"Gli impianti sono ormai quasi tutti realizzati in titanio. Il successo di questo materiale - precisa Roberto Abundo, esperto della Società Italiana di Parodontologia e Implantologia (Sidp) - è fondato sul principio dell'osteointegrazione, fenomeno che consente alle cellule dell'osso mascellare di crescere a contatto con la superficie implantare, creando uno stretto legame biologico, stabile nel tempo, per poter sostenere la masticazione".
Una volta integrati, gli impianti sono a tutti gli effetti delle nuove radici artificiali che, come quelle naturali, sono protette dall'ambiente esterno attraverso un sigillo costituito dalla gengiva sana. "Ma, - prosegue Abundo - così come intorno ai denti naturali, anche intorno agli impianti l'accumulo di placca batterica porta a condizioni infiammatorie.
Progressivamente, infiammazione e placca possono scendere in profondità, provocando un riassorbimento osseo che mina la stabilità delle radici, siano esse costituite da denti naturali o da impianti. La colonizzazione delle superfici degli impianti da parte dei batteri presenti nella placca può, però, essere ancora più pericolosa e rapida rispetto a quanto accade con i denti naturali." Nel corso degli anni, si è passati dalle superfici implantari di titanio 'lisce' a quelle 'irruvidite' attraverso procedimenti che ne aumentano la capacità di attrazione nei confronti delle cellule ossee. Tuttavia, insieme all'aumentare dell'affinità della superficie dell'impianto per le cellule ossee, l'utilizzo di superfici ruvide per gli impianti può aumentare anche la loro capacità di attrarre batteri, provocando le temute periimplantiti.
"La ricerca scientifica - prosegue Abundo - mostra però come non tutti i tipi di rugosità aumentino tale rischio in proporzione all'aumentare della capacità di attrazione per il tessuto osseo. Uno studio clinico nel 2010 ha, per la prima volta, dimostrato come alcune superfici, grazie a specifici trattamenti di fabbricazione degli impianti, sono in grado di legare molto bene le cellule ossee ma non altrettanto le cellule batteriche". Questo è stato poi confermato da diversi studi, in ultimo quello condotto dall'Università di Porto Alegre in Brasile, pubblicato nel 2020 su International Journal of Oral and Maxillofacial Implants.
Pertanto, conclude l'esperto, "da un lato il dentista deve essere in grado, in base alle evidenze scientifiche, di selezionare l'impianto da usare sul singolo paziente per ridurre il rischio di complicanze. Dal canto suo, il paziente deve avere cura della salute delle proprie gengive attraverso una scrupolosa igiene orale e un periodico controllo professionale".
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