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Vedi alla voce Femminicidio, non fatto isolato ma ultimo atto del ciclo di violenza sulla donna

Femminicidio: sulla Treccani si legge: uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale.
La ricercatrice Milena Anzani, dell’Università degli Studi di Padova,Istituzioni e politiche dei diritti umani e della pace, definisce ancora meglio il concetto su cui vale la pena riflettere, anche per l'ennesima uccisione che ha provocato una forte partecipazione emotiva, la morte della giovane Giulia Tramontano, incinta di sette mesi, per mano del suo compagno.

"Il femminicidio, a differenza da quanto si possa comunemente ritenere, non si configura come un fatto isolato che accade all'improvviso, ma costituisce l'ultimo atto all'interno di un ciclo della violenza. In questo senso, il femminicidio individua una responsabilità sociale nel persistere, ancora oggi, di un modello socio-culturale patriarcale, in cui la donna occupa una posizione di subordinazione, divenendo soggetto discriminabile, violabile, uccidibile. Sul piano dei comportamenti individuali, il femminicidio può essere visto come la massima espressione del potere e del controllo dell'uomo sulla donna, l'estremizzazione di condotte misogine e discriminatorie fondate sulla disuguaglianza di genere", argomenta Anzani.

Le discriminazioni di genere, gli stereotipi sulle donne radicati nel substrato socio-culturale, la divisione di ruoli e l’esistenza di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini sono fattori che costringono la donna a permanere in una condizione di subalternità in cui si alimenta il ciclo della violenza. I femmicidi/ femminicidi sono pertanto gesti estremi di violenza che sottendono una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi, di violenza e di violazione sistematica dei diritti delle donne.

Il concetto si è diffuso in Europa soltanto a partire dai primi anni del XXI secolo grazie da un lato alla divulgazione a livello mondiale dei gravi fatti di Ciudad Juárez, la città messicana divenuta dal 1993 teatro di innumerevoli sparizioni e uccisioni di donne, e dall'altro grazie alle lotte e alle proteste dei movimenti femministi, specialmente di quelli latino-americani, contro queste pratiche.

I primi riferimenti ufficiali dei termini “femmicidio”/“femminicidio” si ritrovano all’interno della Risoluzione del Parlamento europeo (PE) dell’11 ottobre 2007 sugli assassinii di donne (femmicidi) in Messico e America Centrale e sul ruolo dell’Unione Europea nella lotta contro questo fenomeno, nonché nel Rapporto annuale sui diritti umani presentato dal Parlamento Europeo nel 2010, in cui se ne ribadisce la condanna. Di femmicidio/femminicidio si discute poi nelle linee guida dell’Unione Europea sulla violenza contro le donne adottate dal Consiglio dell’UE nel 2008 e nel giugno 2010 l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, Catherine Ashton, esprimendo le proprie preoccupazioni sui femminicidi in America Latina, ha definito “tutte le forme di violenza di genere come aberranti crimini di femminicidio”.

Il femmicidio, dall'inglese femicide, è un termine criminologico introdotto per la prima volta dalla criminologa femminista Diana H. Russell all'interno di un articolo del 1992 per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donne. 

Diversamente, il termine femminicidio, dallo spagnolo feminicidio, racchiude un significato molto più complesso che supera la definizione ristretta di femmicidio, focalizzandosi soprattutto sugli aspetti sociologici della violenza e sulle implicazioni politico-sociali del fenomeno.

Utilizzato nel 2004 dall'antropologa messicana Marcela Lagarde con lo scopo di attirare l'attenzione politica sulla drammatica situazione vissuta dalle donne in Messico, in particolare nella zona di Ciudad Juárez, il concetto di femminicidio è diventato oggetto di studio anche di altre attiviste dell'America Centrale come Julia Monárrez, Ana Carcedo e Monserrat Sagot, acquisendo ben presto una diffusione globale.
Grazie alle lotte dei movimenti femministi e al lavoro della ricerca scientifica, il termine femminicidio ha acquisito una forte connotazione politica, al punto che in numerosi Paesi latino-americani le istituzioni hanno introdotto la categoria del femminicidio all'interno delle legislazioni penali, avviando un dibattito tutt'altro che lineare sul significato di questo vocabolo. Se da un lato infatti l'utilizzo a livello formale del termine femminicidio ha permesso di accrescere consapevolezza nella società civile sulla dimensione strutturale della violenza di genere e sulla conseguente necessità di un approccio integrato e multidimensionale per prevenirla e combatterla, dall'altro la trasposizione del concetto sociologico di femminicidio in una fattispecie penale ha posto il problema dell'individuazione della condotta punibile, diversa rispetto ad altre forme di violenza di genere già tipizzate.
In Italia il concetto di femmicidio, nel significato delineato da Diana Russel, viene utilizzato a livello teorico dalla ricerca sociologica e criminologica , mentre il termine di femminicidio, così come definito da Marcela Lagarde, è preferito sul piano politico e dalla comunicazione mediatica per ricostruire fatti di cronaca riguardanti le uccisioni di donne da parte di uomini e ricomprende tutte le violenze e le discriminazioni legate al genere, che colpiscono la donna nella sua sfera fisica, psicologica e sociale.
Il reato di femminicidio, è entrato a far parte del nostro Codice Penale: nel 2013 il Parlamento italiano ha ratificato la convenzione di Istanbul e approvato le “disposizioni urgenti per il contrasto della violenza di genere” previste dal cosiddetto decreto anti-femminicidio (n. 93 del 14 agosto), convertito nella legge 15 ottobre 2013. La legge sul femminicidio prevede un’apposita aggravante per questo reato nel caso in cui la vittima sia una donna in stato di gravidanza, oppure sia persona della quale il colpevole sia il coniuge (anche separato o divorziato), ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza. Nel 2017 è stata istituita in Senato la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere. La Legge n. 69 del 2019 ha inasprito maggiormente le pene per chi si macchia dei reati di violenza domestica e di genere. In particolare, per quanto riguarda il diritto penale, la legge introduce nel codice quattro nuovi delitti: il delitto di deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (nuovo art. 583-quinquies c.p.), punito con la reclusione da 8 a 14 anni. Contestualmente, è stato abrogato il reato di lesioni personali gravissime di cui all'art. 583, secondo comma, n. 4 c.p., che puniva con la reclusione da 6 a 12 anni le lesioni personali gravissime con deformazione o sfregio permanente del viso. Quando dalla commissione di tale delitto consegua l'omicidio si prevede la pena dell'ergastolo.

La riforma inserisce, inoltre, questo nuovo delitto nel catalogo dei reati intenzionali violenti che danno diritto all'indennizzo da parte dello Stato; il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (c.d. Revenge porn, inserito all'art. 612-ter c.p. dopo il delitto di stalking), punito con la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro; la pena si applica anche a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, li diffonde a sua volta al fine di recare nocumento agli interessati. La fattispecie è aggravata se i fatti sono commessi nell'ambito di una relazione affettiva, anche cessata, o con l'impiego di strumenti informatici; il delitto di costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis c.p.), punito con la reclusione da 1 a 5 anni. La fattispecie è aggravata quando il reato è commesso in danno di minori e si procede anche quando il fatto è commesso all'estero da, o in danno, di un cittadino italiano o di uno straniero residente in Italia; il delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 387-bis), punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.
Quale pena per il reato di femminicidio? Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da 4 a 9 anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da 7 a 15 anni; se ne deriva la morte, la reclusione da 12 a 24 anni. Molte sono le voci discordanti su questa pena, come dimostrano le circa 50mila firme raccolte in poche ore su Change.org per alzarla all'ergastolo. 

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