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Donne che aiutano le donne, il nuovo genere di volontariato contro la violenza

In occasione di una giornata, il 26 novembre con il corteo nazionale a Roma contro la violenza maschile sulle donne e di genere, organizzato da Non Una Di Meno, che vede molte donne, e qualche uomo, manifestare con “amore e rabbia” la ribellione a un dominio che continua a fare la guerra ai loro corpi forse non è inutile portare l’attenzione su quel “nuovo genere di volontariato” che ha visto nascere fin dagli anni Ottanta i primi centri impegnati a dare alle vittime di violenza il sostegno, la solidarietà e la competenza di cui avevano bisogno. Quanti sono oggi in Italia i centri antiviolenza, quante le donne che vi lavorano, spesso gratuitamente, quanti i fondi di cui possono disporre per l’accoglienza, le cause giudiziarie, i costi delle “case rifugio”? Chi ne parla?
In Italia il nucleo territoriale del sostegno alle donne vittime di violenza è costituito dalla rete di Centri Antiviolenza (CAV) e Case Rifugio per donne maltrattate. Si tratta di enti pubblici e privati non profit che offrono servizi specializzati nell'accoglienza delle donne e seguono una metodologia attenta alle questioni di genere. In totale, le strutture attive in Italia sono 716: 350 Centri Antiviolenza e 366 Case Rifugio. Questi dati vanno però rapportati alla potenziale utenza, ovvero le donne residenti in una data area. In Italia il tasso medio di CAV ogni 10.000 donne è pari a 0,1, con una situazione che cambia molto da regione a regione. Nei Centri Antiviolenza sono presenti figure specializzate che offrono, spesso a titolo volontario, uno spazio di ascolto e accoglienza per le donne che hanno subito violenza. Tramite sportelli e colloqui viene fornita una consulenza specifica per la vittima, che può trovare aiuto da parte di psicologhe, avvocate, mediche e altre professioniste. Presso i Centri è anche possibile trovare forme di auto mutuo aiuto. Sono i dati diffusi il 25 novembre 2022 da Percorsi di secondo welfare, del Dipartimento scienze sociali e politiche dell'Università di Milano.

 

Dietro i femminicidi, che arrivano come casi di cronaca sui media - sottolinea la giornalista e attivista sin dagli anni '70 del Movimento femminista Lea Melandri in un articolo sul Riformista rilanciato da Comune Info -  c’è il mondo sotterraneo delle violenze fisiche e psicologiche che li preparano e c’è il lavoro difficile e faticoso di chi si è messo all’ascolto di tanta sofferenza, ambiguità, denunce fatte con coraggio e poi ritirate. Posti sempre a rischio sfratto - come nel caso di Lucha y Siesta a Roma - o centri dove i fondi arrivano con il contagocce.

Nel libro Al centro le parole. 35 anni di pratica femminista, il Centro antiviolenza “Roberta Lanzino” di Cosenza ha raccolto le testimonianze delle operatrici e quelle di chi ha avviato con loro un percorso di “ripresa in mano della propria vita”. Sono voci che si alternano nel rispetto delle scelte di empatia, uguaglianza, assenza di giudizio, che sono state alla base del loro operato. Riconoscere i condizionamenti che impediscono a una donna di sottrarsi alla violenza di un marito, di un amante, di un padre, vuol dire non sottovalutare le contraddizioni di un dominio che ha perversamente intrecciato rapporti di potere e sfruttamento con esperienze intime, come l’amore, la sessualità, la maternità, gli affetti familiari. È nell’ accoglienza e nell’ascolto di altre donne che la parola può farsi portatrice di ferite e, al medesimo tempo, della forza e del coraggio che la violenza protratta ha reso invisibili". Scrive Paola Litrenta, una delle operatrici: “Il più delle volte ci si siede attorno a un tavolo: corpi e sguardi asimmetrici. Da una parte le operatrici, dall’altra parte le donne. Ciascuna con la sua propria formazione, la propria identità, la propria storia. E al centro? Al centro le parole, i racconti. Al centro la relazione (…) Le parole sono dense, hanno un peso specifico. Riempiono lo spazio, accolte e trattenute dai muri alti delle stanze. (…) La transazione non è così immediata, ci sono i sentimenti, il senso di vergogna, la rabbia, la voglia di riscatto, il bisogno di protezione. Il confronto le cambia, cambia anche noi: relativizza ciò che ci agita nella nostra quotidianità”. L’analisi della violenza sessista e la pratica con cui il femminismo a partire dagli anni Settanta ha cercato di portarla alla coscienza, in tutte le sue forme, invisibili e manifeste – l’autocoscienza, il partire da sé -, è il terreno di una radicalità fino allora sconosciuta che oggi accomuna nel movimento di liberazione delle donne generazioni diverse, associazioni, centri di documentazione, case delle donne, centri antiviolenza. La trasversalità del patriarcato, i nessi che ci sono sempre stati tra forme diverse di oppressione, per essere visti nelle loro ambigue implicazioni, hanno bisogno di una lingua che sappia inoltrarsi nella vita intima e contemporaneamente linguaggi delle istituzioni pubbliche. "Su questa parola sottratta ai saperi settoriali e alimentata dalla relazione tra donne poste di fronte alla “guerra ai loro corpi” nel privato come nel pubblico, i centri antiviolenza hanno molto da dire".

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