In quelle lacrime c’è il senso di uno sport, fatto di tecnologia capace di spingere una macchina oltre i 340 all’ora e nel quale però è ancora l’uomo a fare la differenza. Non è un computer, George Russell, e quel pianto liberatorio è quello di chiunque oggi avesse tagliato un traguardo al quale guardava da tutta una vita. Questo ragazzo che oggi, a 24 anni, arriva sul gradino più alto del podio nella categoria più veloce e competitiva dell’automobilismo mondiale non è lì per caso. Ci ha messo determinazione, tanta. Raccontano in Inghilterra che quando era appena adolescente e già correva sui kart grazie agli sforzi economici della famiglia chiese un appuntamento a Toto Wolff, il grande capo della Mercedes. A quell’appuntamento il ragazzino si presentò in giacca e cravatta e con una valigetta da manager in mano. La aprì e tirò fuori un blocco di fogli in cui erano stampati i dati statistici e la telemetria delle sue prestazioni in pista. Dicono che Wolff ne rimase impressionato e decise di dargli una mano, sponsorizzando passo dopo passo la sua carriera. Fino a questo giorno qui a Interlagos. In quegli occhi lucidi di questo ragazzo c’è la rabbia di chi vuole uscire dall’anonimato, di chi vuole dimostrare al mondo di essere il più veloce. Di questo è fatta la F1. C’è solo un vincitore anche se tutti vogliono vincere: lo diceva Ayrton Senna, il cui spirito per tutto il week end è rimbalzato in pista malgrado ad averlo visto dal vivo, in questa F1 2.0, siano rimasti ormai davvero in pochi. Ma Russell, con quelle lacrime e con quella prestazione super, merita di essere un erede di Ayrton, almeno per un giorno. Questo qui. La F1 è fatta di uomini. E per averne conferma basta fermarsi e analizzare la gara di Leclerc. Aveva il passo forse anche per vincere ma ha bruciato tutto al via con un tentativo di sorpasso ai danni di Norris del tutto inutile. Charles ha tentato dove non era possibile e se avesse atteso sarebbe passato comodamente nel rettilineo successivo. Eppure dietro quel sorpasso si vede la rabbia di un uomo – malgrado i 25 anni non è più un ragazzo da quando è in Ferrari – che ha tentato di dimostrare di essere più forte del team, degli errori del team. Ha tentato di rimontare, coprendo la catastrofica strategia delle qualifiche imposta da un muretto del tutto allo sbando. Va criticato, perché ha sbagliato. Ma dietro la sua rabbia c’è la stessa determinazione che mostrano al mondo le lacrime di Russell. Così come dietro la orgogliosa resistenza di Hamilton al sorpasso che Verstappen ha tentato c’è tutta la voglia del campione più premiato di non accettare che il suo successore provi a umiliarlo. Un sorpasso in curva all’esterno è l’equivalente di un tunnel nel calcio. Un affronto che Hamilton non poteva accettare, per questo ha resistito e ha finito per scontrarsi con Verstappen compromettendo la sua gara e quella dell’olandese. La F1 è fatta anche di queste cose. E la scelta dei commissari di penalizzare Verstappen è solo un modo per continuare a computerizzare questo sport, togliendogli la componente umana: quelle lacrime, quella rabbia, quella caccia alla gloria che sono la vera benzina delle macchine.