Seppur il 25 Aprile 1945 l’incubo italiano volse al termine, non fu così per i lager e campi di lavoro dove si trovavano migliaia di siciliani, molti dei quali militari. Agli oltre 45 mila italiani deportati vanno infatti sommati i 700 mila militari deportati dopo l’8 settembre come IMI, internati militari italiani, costretti al lavoro forzato e sottratti al controllo della Croce Rossa e alla tutela della Convenzione di Ginevra del 1929. L’elenco dei siciliani è lungo e le stime sono per difetto in quanto al momento della fuga i nazisti distrussero documenti compromettenti e tanti vennero selezionati all’arrivo senza immatricolazione. Anche le gremite fila degli italiani divenuti SS al servizio di Hitler, dopo il 25 aprile cercarono di dileguarsi. Lo stesso comandante SS germaniche in Italia, Wolff, la notte del 25 aprile fu accompagnato in Svizzera da dove impartì l’ordine di resa alle truppe tedesche in Italia. Fu riconosciuto responsabile della strage di 300.000 ebrei e condannato a 15 anni ma dimesso dopo 6 anni per motivi di salute. Riprese la sua attività pubblicitaria e morì di malattia a 84 anni. A Mauthausen si trovava il catanese partigiano Nunzio Di Francesco che raccontò: «Rammento bene quei giorni. Il 25 aprile l’Italia era stata liberata ma i lager di Mauthausen e Gusen continuavano la loro criminale attività di sterminio. Gran parte dei Kapò e dei sorveglianti nel campo di lavoro erano spariti. Le SS cominciavano ad eliminare quasi tutti i documenti, schede, registri e quant’altro avrebbe potuto ritorcersi contro di loro. Il 1° maggio 1945 fu una giornata di festa in tutto il mondo, ma non per noi che eravamo ancora dietro i reticolati del lager». Dal 7 al 25 aprile vi giunsero i deportati evacuati da campi satelliti e altri detenuti della Gestapo che, senza nemmeno esser registrati furono gasati e i registri, schedari e prove dei crimini arsero nei forni crematoi. Proprio il giorno prima della liberazione fu gasato il catanese Carmelo Salanitro, professore di latino e greco al liceo Cutelli di Catania, deportato per avere espresso idee di libertà. La storia ci è stata narrata da Nunzio Di Francesco, storico combattente scomparso nel 2011: «Il professore si reggeva a stento in piedi appoggiandosi fra i castelletti di legno, privato degli occhiali, quasi non vedeva. Nel sentire il mio accento etneo, mi abbracciò procurandomi un senso di gioia. Mi chiese perché io così giovane fossi stato deportato e dissi che ero partigiano. Chiesi il motivo per il quale si trovava lì. Educavo, mi disse, i miei studenti a lottare contro le guerre, per la pace e la libertà. Mi denunciò il preside Verde. Dopo l’armistizio venni consegnato ai nazisti e deportato a Dachau e poi Mauthausen. Il professore era sereno; la sua immensa fede lo ricolmava di speranza, anche se la parte materiale del corpo era quasi inesistente (…) voleva sopravvivere e ci riuscì fino alla vigilia della resa finale dei nazisti in Italia. Il 24 aprile del 1945 però lo inviarono alla camera a gas. Con l’avanzare degli Alleati a Gusen II, sottocampo di Mauthausen, l’appello del 21 aprile 1945 si prolungò parecchie ore e fummo divisi in due colonne: gli ebrei malandati da un lato e i rimanenti dall’altro; seppi giorni dopo che gli ebrei selezionati erano finiti tutti nelle camere a gas: l’ultimo grande massacro prima dell’arrivo degli Alleati. Le SS del resto avevano già eliminato quasi tutti i documenti: schede registri, corrispondenza, e quant’altro avrebbero potuto ritorcersi contro di loro». A Buchenwald il 6 aprile partì il primo gruppo di 4.000 ebrei, trucidato durante il tragitto. Il secondo scaglione di 500 persone comprese anche l’agrigentino Bruccoleri Nicolò e partì due giorni dopo. Come Bruccoleri raccontò «la strada attraverso il bosco per Weimar era ingombra di cadaveri e lorda di sangue; se qualcuno faceva una richiesta per un bisogno qualsiasi, veniva ucciso.» Il convoglio arrivò il 28 aprile, dopo 21 giorni, a Dachau; dei 3.000 ne arrivarono 1200. Al momento della liberazione di Dachau, il 29 Aprile 1945, erano presenti 31.091 uomini di cui 2.185 italiani. Non fu facile riportare quell’inferno alla normalità e nel mese successivo morirono migliaia di persone. Ma la tragedia non era terminata. Dopo la liberazione, cominciò il calvario per tornare a casa magistralmente narrato da Primo Levi in “La tregua”: «Come se un argine fosse franato, proprio in quell’ora in cui ogni minaccia sembrava venir meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza». Ma giunti a casa… non furono creduti e molti cercarono di dimenticare.