Un alieno, un mostro - un «negro che suona con i denti», come scrissero i giornali italiani dei tempi - un selvaggio, un genio, un sovversivo. Uno sciamano voodoo, l’uomo che ha cambiato per sempre il blues trascinandolo verso galassie sconosciute, il meticcio indiano che trasformò radicalmente il suono della chitarra, e non sai se fu l’inizio dell’apocalisse o l’alba di un nuovo giorno. Chi sia stato Jimi Hendrix ancora oggi non l’abbiamo capito fino in fondo. Quel che è certo è che è morto cinquant'anni fa, il 18 settembre 1970: lo trovarono privo di vita in un appartamento al Samarkand Hotel di Londra (ovviamente anche la sua morte - e non poteva essere altrimenti - è avvolta dal mistero: un astruso soffocamento causato da un cocktail di alcol e tranquillanti, ma questa è un’altra storia), ma in poco più di tre anni non solo aveva rivoluzionato la musica, ma anche il nostro modo di capirla, di fruirla, di intenderla. Aveva solo 27 anni: abbastanza, però, per cambiare il mondo. Insieme ai Beatles, a Bob Dylan, ai Rolling Stones e a chi volete voi, ma sicuramente in modo diverso da tutti loro. Non solo perchè trascinò il blues delle origini, dei campi di cotone e degli schiavi, verso orizzonti mai visti primi, fantascientifici, psichedelici, venati di jazz e di funk ma soprattutto colorati di folgore e di una creatività esplosiva che ha pochi paragoni nella storia della musica, ma soprattutto per l’eredità che ha lasciato: il rock elettrico porta indelebile l’impronta di Hendrix, dall’heavy metal al jazz, dal pop al blues, passando per quello che volete voi. Al tempo stesso, non è solo questo: James Marshall Hendrix, figlio di un afro-nativo e di una donna di origini Cherokee, sin dal suo esordio apparve come una premonizione dell’apocalisse. Si narra che il chitarrista, prima di morire, stesse progettando di avviare una collaborazione con Miles Davis. Il fratello di Hendrix, Leon, molti anni dopo racconterà che «se fosse ancora vivo, Jimi si sarebbe dato alla musica sinfonica». Non è un caso se a pochissimi giorni dall’uscita - ancora una volta, cataclismatica - di 'Sgt. Pepper' dei Beatles, sempre in quell'incredibile 1967, lui abbia preso proprio la «title track» di quell'album per aprire i suoi concerti: ovviamente in versione fulmicotonica, durissima, velocissima, una specie di scossa elettrica venata di furore. Praticamente una parabola dei mondi possibili, ma anche un grido di dolore quasi mitologico: rivedersi, per credere, Jimi che alle nove del mattino del quarto e ultimo giorno del festival di Woodstock suona l’inno americano distorto e ululante a imitazioni delle bombe e delle mitragliatrici che in quel momento stavano mandando in fiamme il Vietnam. Di fronte a lui una selva di giovani che sembrano in trance, non si sa se zombie o apostoli dell’ultima epifania rock. Oggi Hendrix è storia consacrata, ma per avere un’idea di quanto fosse un 'alieno' e di quale fosse il cambiamento vorticoso in atto negli anni sessanta, basta dare un’occhiata ai giornali italiani dell’epoca, in occasione di tre concerti del musicista di Seattle a Roma e a Milano. «E' in arrivo il negro che suona la chitarra con i denti», titola la rivista 'Giovanì sul numero del 23 maggio '68. E ancora: «Il brutto con la permanente», è il verdetto del rotocalco 'Sognò, mentre per 'Ciao Big' le fan sono «Pazze per il mostro». Uno che c'era, a quei concerti folli e selvaggi, era il critico letterario Filippo La Porta, allora giovanissimo: «Percepivo un’energia tellurica, selvaggia, anche un pò spaventosa. La sua musica mi rivelò un mondo intero di cui fino a quel momento avevo avuto solo un vago presentimento». Era l’Italia del Cantagiro e dei Musicarelli, in radio regnava 'Avevo un cuorè di Mino Reitano, era un’Italia ancora scombussolata dal boom, del tutto impreparata all’arrivo dell’alieno Hendrix. Tanto che, una fuga d’amore a Villa Borghese con una ragazza italiana appena conosciuta viene interrotta da una volante della polizia. Jimi spunta con la sua mega pettinatura afro da dietro i cespugli. Gli agenti, terrorizzati, gridano: 'Il diavolo!'. Festival di Monterey, 1967: immagini indelebili, assurte a icona di un mondo in rapidissimo cambiamento, quelle di Jimi che al culmine di un uragano sonoro mai sentito - e davanti ad un pubblico semplicemente incredulo - prima suona la chitarra con i denti, poi la incendia e infine la spacca in mille pezzi. Considerate che fuori c'è la guerra in Vietnam, che l’anno successivo sarà il Sessantotto, comprensivo di barricate e utopie. Considerate che siamo nell’"anno santo» del rock, l’anno in cui i Beatles amministrano l’universo con 'Sgt. Pepper', in cui compaiono apparentemente dal nulla i Pink Floyd e i Doors, Simon & Garfunkel e Janis Joplin (poco prima era toccato a Frank Zappa e i Cream), l’anno in cui la musica cosiddetta «pop» abbatte generi e muri, mettendosi al centro di una rivoluzione dei costumi che aveva al suo centro un soggetto sociale nuovo - i «giovani» - e che muterà una volta per tutte il cuore dell’Occidente. La pietra grande come una montagna lanciata da Jimi in questa rivoluzione sono due album usciti uno dietro l’altro, 'Are You Experienced’e 'Axis: Bold as Lovè, sono pezzi come 'Purple Hazè, 'Foxy Lady', 'Manic Depression', 'Spanish Castle Magic', 'Little Wing'. Le possiamo citare alla rinfusa, perchè ognuna di queste canzoni rappresenta un colosso nella storia della musica: è blues-rock, ma è anche psichedelia, ma è anche invenzione, è sciamanesimo nero, sono immagini fantascientifiche e recupero trasfigurato del blues delle origini, è anche la cultura nera, afro-americana, che si riprende lo scettro del rock. Prendete 'All Along The Watchtower', pezzo di Bob Dylan che il mancino Jimi trasfigura completamente nel suo album successivo, 'Electric Ladyland’: quel brano ribolle di Vietnam in ogni riga, pur senza parlare mai di Vietnam. L’attesa del cielo che cadrà sulla terra, il clima da terremoto in arrivo, figure mitologiche come il Joker, il ladro, la Torre di guardia, i principi e i due cavalieri ad annunciare l’apocalisse (come in Isaia 21 - 1-12), quel «dev'esserci una via di fuga da qui» che il Joker dice al ladro (sarà un caso, ma il protagonista del film di Stanley Kubrick sul Vietnam, 'Full Metal Jacket', del 1987, si chiamerà Joker). Fin qui è Dylan. Ma è con Hendrix che la Bibbia incrocia il voodoo: è la sua chitarra elettrica - strumento sciamanico per eccellenza - a tirarne fuori il cataclisma e il sangue, a illuminarne le oscure profezie, a tirarne fuori la sconfinata rabbia e la paura, arrivando persino a far piazza pulita dell’utopia della 'Summer of Love' che era diventato il volto 'ufficialè degli anni Sessanta. I bianchi rimangono senza parole. E’ divertentissimo il racconto che Pete Townshend degli Who di quando vede per la prima volta Hendrix dal vivo. Più o meno il racconto è questo: lo chiama Eric Clapton al telefono e gli dice 'ti va di andare insieme a vedere questo ragazzo americano?' I due - all’epoca considerati più o meno i più grandi chitarristi del mondo, di Clapton si scriveva «è Dio» sulle mura delle città inglesi - all’inizio fingono scioltezza. In realtà gli cadono le mascelle. Mai vista una cosa così. I due escono dal locale frastornati, quasi depressi. Avevano capito che lo scettro non era più loro, ma tra di loro nacque si solidificò un’amicizia rimasta fraterna fino ai nostri giorni. Ma è sbagliato pensare che Hendrix fosse «solo» il rivoluzionario dalla chitarra fumante, psichedelico e apocalittico. Musicalmente onnivoro, ben prima di diventare famoso (quando faceva il sessionman di seconda fila per gente come Little Richard o Wilson Pickett), si studiava a fondo gli album di Dylan, fu tra i primi a interiorizzare davvero che 'The Times They Are 'A Changing', che i tempi stanno per cambiare, come cantava il menestrello di Duluth, oggi assurto a Premio Nobel.