GUALTIERI. La sua ossessione per gli autoritratti era una forma di autoanalisi inconsapevole: la rappresentazione del volto come punto d'incontro di tutti gli esseri viventi. Era considerato il «matto» del paludoso villaggio di Gualtieri (Reggio Emilia). Era nato in Svizzera nel 1899 e il suo soprannome era «il tedesco».
Parlava di sé in terza persona, era gentile ma impacciato. È stato lo sgraziato genio selvaggio (e incompreso) che ha vissuto ai margini non solo della società ma anche della ragione. Era Antonio Ligabue, detto Toni, riconosciuto grande pittore solo dopo la morte. A Palazzo Bentivoglio, a Gualtieri, una mostra fino all'8 novembre ne mostra tutta la grandezza. Centottanta opere, tra dipinti, disegni, incisioni e sculture ne ripercorre la vicenda creativa, troppo spesso, adombrata da quella umana.
Curata da Sandro Parmiggiani e Sergio Negri con un allestimento dell'architetto svizzero Mario Botta, Ligabue torna nella sua Gualtieri, a cinquant'anni dalla sua morte, per la gioia dei tanti estimatori e visitatori che, camminando tra le meraviglie architettoniche della Sala dei Giganti, sentiranno ancora battere il cuore selvaggio dell'artista emiliano. Il francese Jean Dubuffet, nel 1945, per definire l'arte dei pittori senza regole inventò un termine: «art brut» (letteralmente, «arte grezza»), per indicare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti, autodidatti e finanche malati mentali che operavano
al di fuori delle norme estetiche convenzionali.
Ligabue, all'anagrafe Antonio Costa, non conobbe mai il nome del suo vero padre ed ebbe una vita «assolutamente eccezionale nella tragicità e nella sofferenza», dice Parmiggiani.
PARTICOLARI NELLE RIPRODUZIONI FOTOGRAFICHE DI GIOVANNI PEPI
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