A sud di Zaporizhzhia, dopo il fiume Dnipro, ci sono villaggi ucraini dove il confine tra invasore e liberatore è talmente sottile da diventare invisibile. E quando ai check point la «Z» dei russi sostituisce la bandiera gialloblu, diventa più facile entrare che uscire. Nel paese di Novovodyane non c'è stata alcuna resistenza all’invasore, in tanti erano «contenti di vedere i russi». Non la chiamano occupazione perché, anche se ci sono carri armati e militari che presidiano i confini dei villaggi, qui «i soldati evitano scontri, bombe, proiettili o artiglieria - dicono - la vita è sempre la stessa». In questo caseggiato di contadini con piccole casette poi è stato facile entrare, perché il capo del villaggio «sta con i russi, come in Crimea». Tra i millecinquecento abitanti del paesino ci sono anche i dipendenti della centrale nucleare di Zaporizhzhia, che dista solo una decina di chilometri e agli inizi di marzo era stata attaccata: proprio allora sono arrivate da terra le truppe dei miliziani. Anche per questo gli abitanti hanno deciso di non lottare ed «evitare rischi: non volevamo feriti», dicono. Qualcosa però è cambiato, eccome. Sugli scaffali dei pochi magazzini del villaggio già povero, la merce scarseggia e i prezzi sono più alti. Le atrocità e la distruzione nelle città a nord di Kiev - come a Bucha, Buzova, Hostomel, Irpin o Borodyanka - da qui sembrano però riguardare un’altra guerra, un altro Paese. A Novovodyane è comunque impossibile protestare: solo qualche settimana fa era stata organizzata una manifestazione di protesta antirussa in un territorio poco distante e per disperdere la folla i miliziani di Putin hanno lanciato le granate stordenti e le «N4», quelle sonore. Non è chiaro se qualcuno sia stato anche catturato. Due settimane fa Oleksander - che lavorava allo stabilimento nucleare ma non era originario del posto - è riuscito a scappare. Ha camminato a piedi per due giorni e una cinquantina di chilometri. «Ai check point i russi mi hanno spogliato, preso soldi e documenti e sono stato tenuto per due ore prigioniero, in ginocchio in una fossa. Poi mi hanno lasciato andare». Per lui la gente di Novovodyane ha «tradito l’Ucraina» e con parole meno sofisticate descrive quasi un luogo in cui la gente sembra essere in preda alla sindrome di Stoccolma. «Li hanno fatti entrare. “Saremo con voi”, gli hanno detto. E adesso è forse è subentrato anche l’egoismo, hanno anche capito che c'è il vantaggio di fare soldi con il commercio dei frutti della loro terra nei territori della Crimea. Ma le milizie di Putin ammazzano, rapiscono le persone e hanno messo a repentaglio anche la centrale dove lavoravo», dice Oleksander in una delle tende dei rifugiati a Zaporizhzhia: qui, dopo essere stato accolto, adesso serve i pasti agli altri profughi. Novovodyane sembra comunque essere tutt'altro che Mariupol. Eppure, dista pochi chilometri. Nessuna sindrome di Stoccolma, qui i contadini sono stati pragmatici: quando c'è una guerra si passa dalla metafisica della propaganda alla pratica della sopravvivenza.