«Il Signore ti risponda nel giorno dell’avversità e ti tragga in salvo. Quelli si piegano e cadono, ma noi restiamo in piedi e siamo saldi». Davanti alla gente del villaggio di Lukashivka, il pastore legge sulla strada sterrata il salmo 20 della Bibbia, che suona a metà tra una preghiera e un inno di battaglia. Subito dopo i fedeli, per diversi minuti sotto la pioggia con le mani conserte e i piedi nel fango, si lanciano sulle buste di pane e alimenti che arrivano da un furgone. Alle loro spalle ci sono le macerie della chiesa dell’Ascensione, diventata per oltre un mese il quartier generale dei soldati russi. È una scena che si ripete tutti i giorni da poco più di una settimana, da quando le milizie di Putin si sono ritirate sotto i colpi dell’artiglieria ucraina. Per oltre un mese in quella chiesa e nei dintorni il paesino è stato trasformato nel fortino di miliziani del battaglione dell’estremo oriente russo: anche qui hanno torturato, ucciso e fatto razzie di tutto quello che potevano, come ha denunciato l’arcivescovo maggiore di Kiev Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina. Non c'è stata alcuna resistenza. Fino ad allora Lukashivka era un posto tranquillo vicino alla frontiera a nord di Kiev, a due passi da Chernihiv, abitato da contadini che parlano un dialetto a metà tra il russo e l’ucraino: su duecentotrenta abitanti (altri cento erano riusciti a scappare prima) ne sono stati uccisi una decina. I loro corpi fino a poche ore fa erano nei campi, in qualche casa e nel piccolo parco giochi davanti al sagrato della chiesa, ora crollata sotto i colpi della battaglia. Nelle stradine fangose e prive di asfalto girano i cani tra le carcasse, che si saziano con le carogne delle mucche, quelle allevate nel villaggio. Più che di abitazioni si tratta di baracche e in una di queste è stato prelevato Ivan Korobka, 36 anni: «Sono venuti a casa e mi hanno detto "Adesso andiamo a parlare". Si sono seduti di fronte a me, chiedevano "Dove sono i soldati ucraini?". Gli ho risposto che non lo sapevo e loro hanno tirato fuori un pugnale e hanno cominciato a conficcarmelo nelle gambe - dice Ivan mentre mostra tre grosse ferite sulle cosce e mima il gesto delle coltellate -. Per fortuna è arrivato in tempo il loro luogotenente. Li ha fermati e mi ha aiutato a medicarmi». Torture e soldati come schegge impazzite, segno che i russi in quei territori erano allo sbando e non riuscivano a controllare del tutto le truppe. «Alcuni soldati erano violenti, altri cercavano di tenerli a bada», spiega la gente. Non si può dire a chi sia andata peggio: un giovane di vent'anni è stato lasciato al freddo nudo e con le mani legate dietro alla schiena per ore, anche lui colpevole di non sapere dare informazioni sui militari ucraini. Nella fattoria di Olexander Chernenko i miliziani invece hanno fatto irruzione sparando ovunque, prima di sedersi. Poi hanno tenuto otto civili prigionieri nella cantina per una settimana e hanno portato via cibo, vestiti e stivali. «Persino i calzini», racconta. Quando si sono ritirati, hanno bruciato i loro stessi carri armati prima di lasciare Lukashivka. La periferia di Chernihiv è un supplizio senza fine. A Yagydne, un altro villaggio povero a qualche chilometro, è quasi tutto distrutto, i 380 abitanti sono stati tenuti prigionieri nel rifugio sotterraneo di una scuola per oltre un mese, con i miliziani russi in superficie che bivaccavano nelle loro case, prendevano quello che volevano e intanto organizzavano l'avanzata. Undici civili sarebbero morti di asfissia o infarto e altri otto uccisi. «Tenendoci il fucile puntato, ci hanno permesso man mano di seppellirli. Per non farci morire di fame, a noi davano il loro cibo», dice Volodymyr mostrando le tante scatole di cartone delle razioni K dell’esercito russo, contenenti marmellata, fette di pane e scatolette di carne, «mentre nelle nostre case loro si abbuffavano». Anche qui ogni giorno passa un pastore. La gente del paesino prega, ma in cambio vuole il tozzo di pane.