Camminano ancora spaventati nella loro città semideserta. E quando qualcuno gli chiede cosa è successo, mettono le dita sulle tempie, le tirano indietro e danno un volto al nemico: «Avevano gli occhi a mandorla», dice la gente di Makariv, ennesima città a nord di Kiev presa d’assalto dall’esercito di Putin. Anche qui i miliziani dell’estremo oriente russo non hanno avuto pietà. La città è per metà distrutta. Finora si sono contati 133 morti e sui cadaveri, rinvenuti nei campi e dietro le abitazioni, c'erano segni di torture. «Avevano le mani legate e in almeno due casi si trattava di donne stuprate e poi uccise, una di queste è stata sgozzata. Abbiamo trovato i corpi». Mentre lo dice, Vadim Tokar fa il gesto con la mano che gira intorno alla gola. È il sindaco-soldato di Makariv, che prima della guerra era un avvocato, ma ora indossa una divisa militare come se fosse al fronte, tanto che dopo l’occupazione è stato decorato con una medaglia d’onore dal presidente Zelensky. Per il ministero della Difesa ucraino si tratta di «un nuovo, mostruoso crimine di guerra». Fin dallo scorso 25 febbraio i morti, spiega Tokar, sono sparsi nelle case, sotto gli edifici crollati. Quelli che erano in strada sono stati recuperati. Nei racconti della gente, poca quella che esce dalle case ancora rimaste in piedi, il rituale di guerra è quasi sempre lo stesso anche se qui «gli spari alle auto in strada arrivavano anche dall’alto, dagli elicotteri», ricorda Oleh, 58 anni, che si è rifugiato con la moglie, i due figli, una parente, gatti e cani per tutto il tempo in cantina al buio e senza riscaldamento. Col dito ora indica le finestre sfondate della sua casa, dove entrava vento gelido mischiato a fumo e odore di polvere da sparo. Ma gli è andata bene, perché - spiega Maria - «in alcune abitazioni i militari russi hanno lanciato le granate nei rifugi, non volevano neanche ci nascondessimo, ammazzavano anche gli animali». A quanto pare però l’esercito cambiava continuamente le sue posizioni all’interno della città, dove non c'erano sempre gli stessi gruppi di militari: «Alcuni soldati russi a un certo punto ci hanno detto di scappare perché sarebbero arrivati quelli più cattivi, gli “udmurt” e i “buryat”», l’etnia dei miliziani dell’estremo oriente che non fanno prigionieri e si sono accaniti anche su Bucha. Del resto, in quest’area, tra un territorio e l’altro l’unica cosa che resta sull'asfalto e sul terreno dei campi sono le macchine schiacciate o traforate dal piombo, i relitti di carri armati, le casse vuote che contenevano kalashnikov e artiglieria e gli accampamenti di fortuna usati dai russi durante l’occupazione. Come in un copione di guerra già visto in questi giorni, anche Makariv è stata isolata fin dall’inizio: «Sono entrati e hanno rotto i telefoni, uccidendo chi scriveva o cercava di mandare informazioni all’esterno». Poi i collegamenti sono stati completamente distrutti e quasi per una quarantina di giorni il mondo non ha saputo nulla di cosa si stesse compiendo alle porte della capitale ucraina. Sviatoslav, che pure è rimasto in paese tutto il tempo, dice di essersi barricato in casa come gli avevano detto di fare e di aver sentito solo spari per settimane. Al fratello di Maria è andata tutto sommato bene: «Era per strada, lo hanno fatto inginocchiare e poi hanno sparato in aria per spaventarlo, la sua colpa era non aver portato con sé il passaporto». Il vicino di Oleh invece non si trova più o almeno si vuole credere che sia soltanto scomparso, perché invece la sua macchina è rimasta lì trafitta da fori di proiettili ovunque: «Stava andando a trovare la moglie a Borodyanka, era in ospedale perché doveva partorire». Non potevano immaginare che l’onda disumana stesse arrivando anche lì: ad avvisarli era stato persino il nemico.