«Highlander» non è solo il suo film del 1986 in cui interpreta un maestro d’armi spagnolo immortale come il suo allievo Chris Lambert, ma è l’emblema di Sean Connery, un’icona che non sbiadisce.
Creato baronetto nel 2002 nonostante le sue dichiarate simpatie indipendentiste per l’amata Scozia, Thomas Sean Connery compie 90 anni oggi.
In Italia lo abbiamo visto per l’ultima volta nel 2007 quando venne alla Festa del Cinema di Roma per ritirare un premio alla carriera (il Marco Aurelio d’oro) che fa bella mostra di se in una bacheca spoglia di riconoscimenti pari al suo successo: un Oscar come miglior attore non protagonista (per «Gli intoccabili» di Brian De Palma), tre Golden Globes, un pò di ovvi riconoscimenti in patria e una trentina di premi alla carriera (tra cui perfino un Telegatto).
Ma Sean Connery, nato a Edimburgo da un camionista e una cameriera, non ne ha mai fatto un dramma: «scambierei perfino l’Oscar - ha detto - per una vittoria al Masters di golf. Ma non sono abbastanza bravo, purtroppo». Va molto fiero invece delle sue lauree honoris causa alle università di Edimburgo e St.Andrews e dell’omaggio speciale riservatogli da Harward dopo la parte dell’ispido scrittore di «Finding Forrester», diretto da Gus Van Sant nel 2000. Ancora pochi mesi fa Sean Connery è stato confermato per acclamazione come il miglior James Bond della saga di 007.
Difficile dire quanto soffra questa associazione obbligata: in gioventù non le diede molto peso («Mi volevano fare un provino per avere il parere di Ian Fleming. Io mandai al diavolo i produttori e per poco non persi l’occasione della vita»); poi ne fu ossessionato tanto da interrompere bruscamente una storia iniziata nel 1962 con «Licenza di uccidere» dopo cinque successi planetari fino a «Si vive solo due volte» (1967).
In seguito, tentato dal compenso e ormai sicuro dei suoi mezzi, riprese pistola e smoking d’ordinanza ancora due volte ("Una cascata di diamanti» e «Mai dire mai»); sopportò perfino che suo fratello minore, il botanico Neil, si lasciasse coinvolgere in una improbabile spy story italiana intitolata «Ok Connery». Sean Connery arriva al cinema per caso, dopo che un’ulcera gastrica gli impedisce nel 1950 di confermare la «ferma» nella Royal Navy dove si era arruolato a 16 anni, rinunciando a un contratto da calciatore. In cerca di lavoro fa il bagnino, il muratore, lava piatti e vernicia bare, si fa perfino fotografare nudo per un calendario e arriva terzo alle selezioni di Mister Universo grazie all’alta statura, al sex appeal naturale. Da ragazzo ha frequentato un corso di danza e grazie a quest’esperienza si prova sui palcoscenici off di Londra.
«Guadagnavo appena di che vivere - ha raccontato - ma a me sembravano vacanze ben pagate rispetto al lavoro vero».
Nel 1957 debutta nel cinema con l’avventuroso «Il bandito dell’Epiro» di Terence Young, il regista che gli darà la fama dirigendolo nel primo James Bond Film. Connery si cimenta in tutti i generi tra cinema e tv finendo anche nel cast all-star de «Il giorno più lungo». Ma resterebbe un comprimario, per di più afflitto da precoce calvizie, se il caso non lo guidasse verso l’agente segreto creato da Ian Fleming.
Qual è la sua arma segreta?
Si è parlato dello sguardo ammaliante e assassino con cui fulmina belle donne e pericolosi spie. Si è passato sotto silenzio il toupet imposto dalla produzione che gli conferiva un’aria più adulta; si è analizzato il fascino animale che tiene insieme la brutalità del killer e l’eleganza della spia in smoking con cui Fleming aveva costruito il personaggio (pensando però a attori più sofisticati come Hoagy Carmichael o Cary Grant).
Ma la parte finì sulle spalle di Connery che non si lasciò sfuggire l’occasione. Per sfuggire al cliché di 007, Sean ottenne di alternare il ruolo-principe con altri film: non fu fortunata la sua collaborazione con Hitchcock (per «Marnie» il regista ammise di aver preso un abbaglio credendolo un nuovo Cary Grant), ma andò meglio con Sidney Lumet («La collina del disonore», 1965). Cominciò così a costruirsi un nuovo personaggio (coraggioso, macho, ironico, romantico): è così in «I cospiratori» di Martin Ritt, «Riflessi in un occhio scuro» ancora con Lumet, «Zardoz» di John Boorman, fino a tre capolavori del cinema d’avventura come «Il vento e il leone» (John Milius), «L'uomo che volle farsi re» (John Huston), «Robin e Marian» (Richard Lester) alla metà degli '70. A quel punto la sua carriera è ormai benedetta da Hollywood.
Con l’età Sean Connery diventa un divo e un attore sicuro di sé. Lo dimostra in combutta con Terry Gilliam ne «I banditi del tempo», con Fred Zinnemann nel bellissimo «Cinque giorni, un’estate», fino al trionfo planetario de «Il nome della rosa» nel ruolo dell’inquisitore detective Guglielmo da Baskerville dalla penna di Umberto Eco.
Con 94 film alle spalle, 10 avventure produttive e una regia all’attivo (il documentario «The bowler and the bunnet» del '67) per tutti gli anni '80 e '90 ha potuto scegliere i ruoli preferiti e se qualche volta si è pentito ("The avengers"), ha spesso dichiarato di aver molto amato «Gli intoccabili», «The Rock», «Entrapment», «Indiana Jones e l’ultima crociata» (come padre di Harrison Ford), «La casa Russia».
Forse non lo ammetterà mai, ma certamente ha mancato due occasioni storiche come il ruolo di Gandalf nel «Signore degli anelli» e quello di Silente in «Harry Potter» (per cui era stato molto corteggiato), mentre si vanta di aver indossato ben quattro volte i panni di un re, da Artù a Riccardo Cuor di Leone. Padre affettuoso di Jason e nonno del giovane e Dashiell, non ama stare a Hollywood, ha avuto pochi amici tra i colleghi (in particolare Richard Harris e Michael Caine), ha sposato in prime nozze Diane Cilento e nel 1975 la pittrice Micheline Roquebrune. Benché dopo il suo ritiro dalle scene nel 2006 si sia spesso ipotizzato che fosse affetto dal morbo di Alzheimer, Sean Connery è riapparso in pubblico (al torneo di tennis di Flushing Meadows) nel 2017. Nel ritirare un premio alla carriera ha detto «I miei piedi stasera sono stanchi, ma il mio cuore e il mio cervello proprio no!».
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