ROMA. Cosa si può dire ancora di Totò, per gli amici Antonio De Curtis ma per l’anagrafe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, scomparso il 15 aprile di 50 anni fa nella sua casa romana di Viale Parioli a soli 69 anni di una vita furibonda e frenetica?
Tanto fu applaudito ed esecrato in vita, specie dalla critica, tanto suscitò passioni ed amori nel pubblico e nelle donne, tanto fu un’anima solitaria come solo i grandi comici sanno essere e tanto visse sempre nell’angoscia di non essere ricordato se non per la sua maschera farsesca. Dopo una consacrazione postuma che lo ha innalzato ai vertici della popolarità e dell’arte, dopo le mille e mille righe a lui dedicate da studiosi (Umberto Eco) e artisti (Pasolini scrisse che la «sua maschera riuniva perfettamente l’assurdità e il clownesco con l’immensamente umano") cosa resta da dire?
Figlio illegittimo del Barone Giuseppe De Curtis e di Anna Clemente, Antonio «N.N.» Clemente detto Totò nasce il 15 febbraio 1898 nel cuore della «guapperia» napoletana al Rione Sanità in quella casa modesta che oggi sarebbe il suo museo ed è invece lasciata nell’incuria a rischio di crollo. Malinconico e solitario, poco versato per gli studi e complessato per il suo stato di «figlio di nessuno» (il padre lo riconobbe dopo i 20 anni), Totò si rifugia fin da bambino dietro la maschera del comico e dell’istrione, le sole armi con cui si fa amare da compagni e grandi. Esordisce sui palcoscenici periferici di Napoli già nel 1913, ma è solo dopo la Grande Guerra (sotto le armi ma lontano dal fronte) che abbraccia il suo destino sul palcoscenico della Sala Napoli scritturato da Eduardo D’Acierno.
Il padre riunisce la famiglia a Roma e qui Totò, nella totale disapprovazione dei genitori, comincia la sua vera gavetta da "straordinario» di compagnia, aggregato a diverse formazioni, spesso lasciato senza lavoro e senza soldi, solo a fatica in grado di farsi largo nel mondo della commedia dell’arte e dell’avanspettacolo. Il fortuito incontro con Giuseppe Iovinelli, l’impresario dell’Ambra Iovinelli di Roma e l'inaspettato successo delle sue macchiette ne fanno rapidamente un divo della scena comica. Non scorderà mai però la fatica degli esordi: «La miseria - diceva - è il copione della vera comicità... Non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita». Simile in questo a Charlot, che spesso additò a modello, desolato come Buster Keaton a cui fin troppo spesso veniva accostato per la gestualità straniata, Totò fu però soprattutto un formidabile autodidatta, capace di cogliere nei tic della gente comune i tratti che poi elevava a gesti comici (da bambino lo chiamavano 'o spione per la sua attenzione al lato buffo degli altri), anarchico nel lavoro quanto meticoloso nella costruzione di sé e delle sue maschere. Nel pantheon dei grandi interpreti «del corpo» assomma i tratti di Eduardo e Tati, Chaplin e Keaton, ma non viene mai meno a una originalità senza limiti che, lo faceva applaudire anche dagli stranieri (dalla Svizzera alla Spagna), mentre solo la pigrizia e la timidezza provinciale gli preclusero i palcoscenici più grandi, compreso quello americano dove venne invano invitato.
La sua eredità non viene ben descritta dai numeri, comunque impressionanti: 97 lungometraggi interpretati a passo di carica dopo l’esordio nel 1937 con «Fermo con le mani», voluto da Goffredo Lombardo che cercava volti nuovi per il cinema; oltre 50 spettacoli tra commedia, rivista, avaspettacolo nell’arco di tempo che va dal 1928 al 1957 quando l’aggravarsi di una acuta malattia agli occhi lo rese praticamente cieco. In parallelo ci sono poi le prove da cantante (con un successo speciale per "Malafemmena"), le apparizioni televisive (memorabile «Studio Uno» con Mina), le poesie (la raccolta di «A' livella"), i fumetti, le pubblicità, le apparizioni a sorpresa. Ma il cuore di un successo che ancora oggi lo fa primeggiare su ogni altro protagonista della scena italiana (a grande distanza da Alberto Sordi e Massimo Troisi) viene da una genialità interpretativa che sempre lo fece autore di se stesso, in una dimensione sospesa tra osservazione del reale e astrazione surrealista, satira e farsa, intuizione verbale (celeberrimi i modi dire che sono entrati nel lessico comune) e costruzione fisica (la maschera-automa, il guitto e il poeta, il pulcinella e il nobile). Benché abbia avuto al cinema pigmalioni come Cesare Zavattini e De Sica, poi grandi sodali come Carlo Ludovico Bragaglia, Steno e Monicelli o perfetti complici del suo genio (da Corbucci a Mattoli a Mastrocinque), solo a fine carriera ebbe l’onore dei maggiori autori italiani: lo voleva Fellini per mai realizzato «Viaggio di G. Mastorna», lo scelse Pasolini (da "Uccellacci e uccellini» a «Che cosa sono le nuvole"), lo chiamarono Risi, Bolognini, Lattuada. Eppure nell’immaginario popolare vive soprattutto per i film interamente modellati su di lui, da «Miseria e nobiltà» a «Totò le mokò», da «I pompieri di Viggiù» a «47 morto che parla» fino ai vari episodi di «Totò e Peppino» in coppia con l’amico De Filippo.
Fece scalpore anche nella vita privata, segnata da grandi passioni e dolori: dal suicidio della prima moglie, la sciantosa Liliana Castagnola, fino alla tormentata e appassionata storia con Franca Faldini. Si fece adottare, nel 1933, dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, in rincorsa a quel prestigio aristocratico che gli sembrava riscattare le sue origini; si sentiva davvero erede del sacro romano impero e della corona di Costantinopoli, anche se le battaglie legali gli fruttarono spesso denunce e delusioni. Come in una pièce di Pirandello ebbe l'onore di 3 funerali: il primo a Roma, vegliato per due giorni dai più grandi di cinema e teatro; il secondo a Napoli in un bagno di folla con 250.000 anime straziate dietro al feretro; il terzo nel cuore di Spaccanapoli dove un guappo locale organizzò la cerimonia intorno a una bara vuota. Ma a quel punto la sua arte volava ormai da giorni nel firmamento dei geni.
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