Domenica 22 Dicembre 2024

Flash dall’inferno dei morti viventI: la Menazzi Moretti dà «voce» ai detenuti

Sky (cielo che i detenuti possono vedere solo due volte alla settimana
The Strength (la forza che serve a resistere)
The well (il pozzo metaforico dove finiscono le vite dei carcerati)
La cover del libro ispirato alle parole dette e scritte dai condannati a morte
Ghost (fantasma)

SIENA. Un’attesa lunga dieci anni e ottantasette giorni. Ma, tra processi e appelli, nel braccio della morte del carcere texano di Livingstone, l’intervallo tra la vita e il giorno dell’esecuzione capitale potrebbe durare molto più a lungo. Luisa Menazzi Moretti a quei condannati a morte ha dedicato un progetto che, dopo il successo all’European month of photography di Berlino, dal 13 aprile al 4 giugno, sarà allestito presso il museo di Santa Maria della Scala, a Siena. «Ten years and eighty-seven days» (catalogo trilingue ed. Contrasto, pag. 55, 19,90 euro) è stato ispirato dalle parole dette (o scritte) proprio di quei detenuti che, parafrasando Giuseppe Ungaretti, potremmo dire «stanno come d’autunno sugli alberi le foglie». Il risultato è una serie di fotografie che Menazzi Moretti ha ideato e poi composto (in dittici o trittici), creando abbinamenti emotivamente efficaci. Foto di grandi dimensioni (quadrate 1m x 1m, 1m x 70 cm, se rettangolari) «venutemi in mente leggendo lettere private rese pubbliche , atti ufficiali o interviste radiofoniche», dice l’artista, «e che ho pensato di tradurre in scatti distanti da ogni realismo». Quello di Luisa Menazzi Moretti, infatti, non è un reportage sui penitenziari di Huntsville o Livingstone ma un progetto sulla vita che non esiste all’interno di quei luoghi. D’altronde, il Texas è un paese che lei conosce molto bene visto che dal suo Friuli, all’età di tredici anni, lascia l’Italia per trasferirsi con la famiglia negli Stati Uniti dove, a College Station, frequenta il liceo per poi proseguire a Houston i suoi studi universitari dove inizia ad appassionarsi alla fotografia. Vivere in Texas significa abitare in un Paese dove la pena di morte è di casa. «Mi ha sempre colpito il fatto che a pochi chilometri da dove stavo ci fosse il braccio della morte. Ricordo che una volta alcuni carcerati vennero a parlare nella mia scuola. Fu un’esperienza che non ho mai dimenticato…erano come noi eppure così diversi, così distanti. Non ho fatto un reportage perché io lavoro con le parole». Ha conosciuto personalmente alcune delle 537 persone di cui pubblica gli scritti insieme con le sue foto? «No, perché in me sarebbe scattata empatia o un totale allontanamento. Ho semplicemente voluto fare un lavoro di comprensione delle loro condizioni, senza mostrare la brutalità degli eventi che accadono nel braccio della morte. Anche nel precedente progetto, «Words», ci sono foto di parole spezzate e frasi incompiute». Lei definisce «Ten years…» un progetto sulla vita e non sulla morte… «Quella nel carcere di Livingstone è una vita che non può definirsi tale: le celle, con porte di ferro, sono grandi due metri per tre e, dal 1999, ovvero dopo un tentativo di evasione, non sono previsti programmi di recupero: si vive in totale isolamento. L’aria e il cielo si vedono per un paio d’ore a settimana e l’unico oggetto consentito ai detenuti, l’unico contatto consentito col mondo esterno sono le radioline ma solo se la condotta è stata buona: la loro è una vita in attesa della morte…Giorno che per tanti è una liberazione». Gli scatti che accompagnano i testi di questi dead men walking rivelano sfumature poetiche… «Non servono dettagli efferati per raccontare. Io non voglio spiegare: il mio è un lavoro sulle parole attraverso la fotografia... E solo in «Crime scene» compare una macchia di sangue seccato sul marciapiede che s’ispira alla lettera scritta nel 2006 al Governatore Rick Perry dal condannato Derrick Frazier che al quotidiano di Dallas, il Fort Worth Star Telegram, continuava a dire «non ero lì, non ho commesso il crimine. È da nove anni che continuo a ripeterlo. Nulla è cambiato». Mentre nella camera della morte, come ultima dichiarazione, augura alla famiglia di «continuare a combattere, a sperare in un futuro migliore. Siamo in grado di farcela». Credo che uno Stato civile e democratico non possa comportarsi come farebbe un cittadino comune, accecato dalla rabbia». Il trittico «The ring» accompagna la citazione (tratta dal libro di Bianca Cerri, ‘America letale’) di Martin Draughton che il 18 agosto 2002 ha contratto matrimonio per procura… «Alla sposa fu fatto sapere che l’anello al dito dello sposo può essere infilato solo dopo l’esecuzione. Nel braccio della morte, condannato e visitatore non possono toccarsi e si vedono per due ore attraverso un vetro rinforzato.Scrive ancora Draughton all’amata: «Quando guardo nei tuoi amabili occhi non trovo alcuna ragione per le parole. I tuoi occhi dicono tutto. Di cosa potrei parlare, vivendo in una cella di tre metri per due? Spesso spero tu possa provare quello che sento, capire le mie emozioni, la mia perdita di emozioni…sono felice ma triste». Le immagini d’una rosa appassita, d’un volto di donna e quella dell’impronta di una mano su un vetro, credo possano forma alle emozioni di Martin Draughton. Che, per inciso, alla fine ottenne una revisione del processo e fu scarcerato».

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