CATANIA. Federico II di Svevia amava le arti. Probabilmente, quindi, non gli sarebbe dispiaciuto ospitare Sua Eccentricità Andy Warhol in «casa» propria, in quel Castell’Ursino dove resterà aperta al pubblico sino al 12 maggio la mostra Il genio di Warhol a Catania. A trent’anni dalla morte, il Papà della Pop Art «parla» ancora con le sue opere decisamente curiose, stravaganti. Sorprendenti. «E questa la chiami arte?», si chiedeva Will Gompertz dalla copertina di un suo libro. Risposta affermativa, dall’ex direttore della Tate Gallery di Londra: «Nessun artista ha colto la natura contraddittoria della cultura del consumo meglio di Andy Warhol e pochi hanno alimentato il duplice fascino della celebrità e della morbosità con tanta passione», ha scritto Gompertz citando in particolare il notissimo Marilyn Diptych che ha certamente avuto un peso significativo nel creare il mito di una «fata» chiamata Marilyn Monroe. Il sorriso misterioso – quasi una Gioconda – della «Magnifica Preda» è un passaggio obbligato nell’allestimento catanese, curato da Mario Mazzoleni. Cinquantotto opere e cimeli del Genio in esposizione. Dalle Ladies and Gentleman alle Campbell’s Soup, passando per gli acetati fotografici del 1975 e le cover create per i Velvet Underground, Miguel Bosè, Loredana Bertè. Tra le curiosità collezionate da Warhol, la cintura di campione del mondo vinta da Muhammad Alì, autografata dal pugile e ora esposta in terra d’Etna con la serigrafia che Warhol dedicò al «Più Grande», o guantoni e pantaloncini «stelle e strisce» indossati da Sylvester Stallone nel film Rocky 4. Omaggio a un maestro precocemente multimediale, nelle sale del Castell’Ursino la Fondazione Mazzoleni con «EF Art» celebrano il Genio che esorcizzò la civiltà dei consumi, affrancando l’uomo della strada dal ruolo di mero acquirente e passivo destinatario di «reclame». Un lavoro rivoluzionario, «non teoricamente impossibile — osservò acutamente lo storico dell’Arte, Giulio Carlo Argan — ma che urta contro la finalità del sistema poiché questo fa di tutto per scoraggiare nei consumatori quella tendenza a formare giudizi di valore che l’esigenza estetica, al contrario, stimola e potenzia». E ancora: «L’immagine sfatta di Warhol e l’immagine rifatta o rigenerata di Roy Liechtenstein (altro caposcuola della Pop Art, ndr) sono due aspetti dello stesso fenomeno. Liechtenstein analizza la parabola ascendente o di formazione dell’immagine della comunicazione di massa, Warhol analizza la parabola discendente o di disfacimento, l’iter del consumo psicologico dell’immagine-notizia». «La ricerca del valore – sono le conclusioni di Argan – è in antitesi alla legge del consumo. I due rimangono, come artisti, due intellettuali di opposizione. Ma di una opposizione prevista e autorizzata dal sistema». Per Will Gomperz, invece, Andy Warhol «era un artista che aveva scelto come tema la società del consumo e che decise di sfruttarla usando le sue stesse armi perché arrivò al punto di trasformare sé stesso in un marchio commerciale». L’ex direttore della Tate ha aggiunto: «Doveva divertirsi molto, quando sentiva parlare di “comprare un Warhol”. Non questo o quel dipinto di Andy Warhol ma un Warhol, sottintendendo che l’opera d’arte, l’oggetto acquistato era irrilevante in termini intellettuali o estetici; la sola cosa che contava era che si trattava di un prodotto di marca che aveva un prestigio sociale e un valore finanziario».