Domenica 17 Novembre 2024

La materia urlata di Anish Kapoor: tutto ha un senso anche il suo contrario

 
 
 
 
 

ROMA. È spiazzante. Non ci sono altri termini se ci si trova dinanzi ad Anish Kapoor: la carne grida, il sangue si condensa, i quarti di bue gocciolano. Tutto il tratto dell’artista anglo-indiano, è una sorta di comunicazione integrata che non lascia morti sul campo. E’ linguaggio portato avanti a spintoni, intersezioni e suggestioni che non hanno il tempo di bisbigliare, perché ad urlare ci metti di meno. La mostra che segna dopo dieci anni il ritorno di Anish Kapoor in Italia, a Roma, è in corso al MACRO - Museo d’Arte Contemporanea Roma, promossa da Roma Capitale, dalla Sovrintendenza Capitolina, con il patrocinio dell'Ambasciata Britannica di Roma. La curatela è di Mario Codognato, è un racconto perverso sulla continua ricerca di Kapoor in ambito formale e concettuale. Perché nulla in lui è spontaneo, tutto costruito, pensato, elaborato, ingegneristicamente preparato. La mostra è caratterizzata da una serie di rilievi e dipinti composti da strati aggettanti di silicone rosso e bianco, e pittura: vere e proprie sculture-architetture monumentali, tra le quali la straordinaria «Sectional Body Preparing for Monadic Singularity», esposta l’anno scorso nel parco della Reggia di Versailles, e riproposta al «MACRO» in dialogo con l’architettura del museo. Punto di partenza, è ovviamente la materia: che Anish Kapoor affronta e disintegra, incuriosito della sostanza. Tra le altre opere in mostra, l’imponente struttura cubica di 7 metri di lato «Sectional Body Preparing for Monadic Singularity», in mostra nel 2015 a Versailles, oppure «Internal Objects in Three Parts» è costituita da un trittico in silicone dipinto e cera, che è stato ideato per dialogare con le tele di Rembrandt al Rijksmuseum. Ecco, Rembrandt; ma anche Bacon e Soutine, gusto del tratto condensato, viscerale, brutale e sensuale insieme. Per raccontare la carne, il sesso, gli organi: tutto è un simbolo, senza astrazioni concettualmente invisibili. La carne è carne, il sangue è sangue, ovunque e dovunque. Il percorso artistico di Anish Kapoor è sempre in bilico tra la trasposizione dei grandi temi dell’esistenza e l’impeto a trasformare la materia e quindi, la realtà. «Luce ed ombra, negativo e positivo, maschile e femminile, materiale ed immateriale – scrive Mario Codognato - pieno e vuoto, concavo e convesso, lucido ed opaco, liscio e ruvido, naturale ed artificiale, rigido e morbido, solido e liquido, attivo ed inerte ed in definitiva ordine e disordine, non sono che alcune delle polarità che concretizzano l’universo sensibile e che attivate o forgiate nella potenzialità sinottica e nella sensualità della forma nell’arte di Kapoor, metaforizzano e metabolizzano per induzione il mistero della vita». Le opere sembrano urlare, attirando attenzione. Sono carni vive, fasce muscolari esposte, adipe e lardo, bende intrise che a stento arginano il sangue e il corpo scomposto, in un turbinare di carminio, rosso-blu, bianco, nero in cui ciascuno può vedere ciò che vuole.C’è solo da chiedersi cosa sia tutto questo sangue. Ma questa è un’altra storia. Anish Kapoor - padre indiano e madre ebrea irachena - è autore di opere in equilibrio tra scultura e architettura; è originario di Bombay, ma è di stanza a Londra. E’ considerato uno dei maggiori artisti della scena contemporanea, i suoi lavori sono nelle più importanti collezioni private e musei nel mondo (Moma di New York, Tate Gallery di Londra, Fondazione Prada a Milano, il Guggenheim di Bilbao). Nel 1990 Kapoor ha rappresentato la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia dove venne premiato. Nel 1991 ha vinto il Turner Prize, seguito dal Praemium Imperiale (2011) e dal Knight Bachelor nel 2013. Le sue celebri e grandi installazioni sono visibili a Londra (la «Arcelor Mittal Orbit»), a Chicago (Il «Cloud Gate»), New York (lo «SKy Mirror»); diverso il discorso per Parigi, Bilbao o Gerusalemme dove vivono tensostrutture abnormi, dentro la quale si percorre lo spazio calandosi in una dimensione intrauterina, e immergendosi in un paesaggio metafisico, come nel «Dismembrement, Site I» in Nuova Zelanda.

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