Domenica 17 Novembre 2024

Compie 60 anni Spike Lee, il "ragazzaccio" del cinema afroamericano

ROMA. In inglese «spike» sta per chiodo, punta sottile quanto resistente; ma per estensione anche «magro» e perfino «ragazzaccio». Non stupisce che sia stato il nomignolo dell’adolescente Shelton Jackson Lee, nato ad Atlanta il 20 marzo 1957 e ribattezzato «Spike» dalla madre Soledad dopo infinite scenate per il carattere ribelle di quel figlio amatissimo, primo di cinque tra fratelli e sorelle, cresciuto tra la Georgia, Chicago e Brooklyn nei quartieri afro-americani. Il padre Bill, musicista jazz, influenzerà a lungo la vita artistica del figlio, finché verrà allontanato dopo l’ennesimo arresto per possesso di droga. Alla vigilia del 60esimo compleanno Spike Lee entra in una maturità che da sempre non gli appartiene, lui genio ribelle, apostolo dell’orgoglio afro-americano, in prima linea per ogni battaglia razziale e profondamente autodidatta nel modo di fare cinema. Voleva diventare giocatore di baseball, ma lo scarso talento e il fisico esile gli chiusero tutte le porte dello sport che pure considera metafora della vita, tanto da inserire almeno un riferimento al «diamante» in ogni sua opera e da farne il primo tifoso della squadra di New York; come del resto lo è dei Knicks nel basket della NBA; dell’Arsenal del suo idolo calcistico Thierry Henry e perfino dell’Inter. Appassionato di letteratura e diplomato al Morehouse College di Atlanta, roccaforte della cultura afro-americana in uno degli stati «sudisti», Spike debutta qui con un corto (poi rinnegato) scritto insieme al suo più caro amico Monty Ross (diverrà il suo produttore) e vi torna poi come regista della cerimonia di fine anno scolastico. «Fu in quell'occasione - ha raccontato - che imparai a dirigere un gran numero di persone e mi venne davvero voglia di stare dietro a una macchina da presa». Teoria e pratica del mestiere li apprende al Clark College e poi alla New York University dove incontra il suo futuro direttore della fotografia, Ernest Dickerson, e il primo regista di cui riconosce una decisiva influenza, Jim Jarmusch. Nel suo pantheon personale andrà poi a collocarsi vicino a Jean-Luc Godard, Akira Kurosawa, Michael Cimino ("Il cacciatore» resta il suo film preferito), Michael Moore. «Ma quando all’università vidi 'Stranger than Paradisè e Jarmusch ebbe uno straordinario successo - ha detto - mi resi conto all’improvviso che realizzare un film era davvero una cosa possibile anche per me». Il debutto coincide così con il terzo anno di università e la tesi di laurea: «Joès Bed», costato 10 mila dollari (in buona parte racimolati dalla nonna Zimmie), ambientato in un salone da barbiere che copre un traffico di scommesse clandestine e salutato come una rivelazione dalla critica newyorkese, tanto da meritarsi l’invito alla prestigiosa rassegna del MoMa «New Films, New Directors» e poi al Festival di Locarno. Dopo una serie di passi falsi e tentativi abortiti, Spike Lee fa il suo ingresso ufficiale nell’industria cinematografica nel 1984: a 27 anni fonda la sua casa di produzione «40 Acres A Mule» con cui due anni dopo produrrà il suo primo vero successo, «Lola Darling». Girato in bianco e nero in soli 12 giorni, interpretato, montato e prodotto in prima persona, il film è una travolgente commedia che gli varrà la definizione di «Woody Allen nero» sul New York Times. Il film sbarcò poi in Europa al Festival di Cannes (Prix de jeunesse) e fece del personaggio di Spike Lee, Mars Blackmon, un’icona tra gli afroamericani. In "Lola Darling» emergono già due tratti tipici dello stile che l'autore etichetterà come «A Spike Lee Joint», espressione beffarda vista la sua intolleranza per ogni tipo di droga: da un lato la passione per i generi, dalla commedia al musical, dal thriller al documentario; dall’altro l’impegno politico e sociale contro il razzismo americano. Non a caso il nome della sua produzione rievoca le false promesse dei politici agli schiavi liberati ("Avrete 40 acri di terra da coltivare e un mulo") e dedica ogni sforzo ad ottenere i diritti per il film "Malcolm X», fino a operare un vero e proprio stalking ai danni del regista designato, Norman Jewison, convincendolo a gettare la spugna. In «Malcolm X» (alla Berlinale nel 1992), Spike Lee ritrova l’attore che ha consacrato a star in «Mò Better Blues" del 1990, il musical che seguiva un successo internazionale come "Fai la cosa giusta» e precedeva di poco «Jungle Fever». Dopo i fuochi d’artificio a cavallo degli anni '90, la carriera di Spike Lee prosegue frenetica, ma va incontro a una serie di delusioni e roventi polemiche anche all’interno della comunità afro-americana: «Crooklyn» (1994), «Clockers» (1995) e "Girl 6» (1996) fanno flop e spingono l’autore a cimentarsi nel documentario militante: il taglio poetico e personale di «Bus in viaggio» nel quale segue la Million Man March verso la Casa Bianca diventa un modello originale di cinema del reale e gli riapre le porte delle majors. I successivi «4 Little Girls" sulla strage razzista di Birmingham, Alabama e «He Got Game" ancora con Denzel Washington nel ruolo del padre di un giocatore di basket sono tra le sue opere più personali. Negli anni 2000 arrivano due opere di genere memorabili: «La 25ma ora» con Edward Norton e «Inside Man» con Denzel Washington e Clive Owen. Certo non memorabili sono invece i suoi lavori più recenti, dal contestato «Miracolo a Sant'Anna» (interamente girato in Toscana nel 2008) e «Oldboy» del 2013, scialbo remake del coreano Parl Chan-wook.

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