ROMA. L'Unione europea, quando Bruno Rovesti inizia a dipingere, non c' era ancora. Eppure, già nel 1948, il pittore dopo la firma, aggiungeva «pittore contadino celebre» e poi «europeo» a ribadire la fama che avevano i suoi quadri: per lui l' Europa era sinonimo di mondo. Fino al 13 novembre, la Sala dei Giganti di Palazzo Bentivoglio, a Gualtieri (Reggio Emilia), ospita Bruno Rovesti, "pittore contadino celebre", mostra antologica che presenta sessanta dipinti che ripercorrono l' intero percorso creativo dell' artista e, in contemporanea, anche il primo nucleo di sessantatre quadri del museo Antonio Ligabue. La vicenda umana e artistica dell' artista si lega sia a Gualtieri (paese dove Rovesti è nato e cresciuto) sia all' amico-avversario- antagonista che conobbe e frequentò (furono "compagni di carriola" sugli argini del Po) dal 1919, anno del trasferimento di Ligabue dalla Svizzera al luogo d' origine del patrigno, Bonfiglio Laccabue. L'esposizione analizza l' iter creativo dell' arte naif di Rovesti, pittore autodidatta, che amava riempire le sue tele di prati fioriti, pacifici animali dai colori sgargianti e strade che, come montagne russe, salgono e scendono: panorami della sua vita interiore e di ideali (forse) irraggiungibili. Perché, nella realtà, lui, sposato e padre di tre figli, bracciante poverissimo (ma era stato anche ranaio, barcaiolo, frutticultore, fattorino) quei paradisi non li aveva mai visti. Bruno Rovesti la pittura la scopre da adulto, all' età di quarantuno anni, quando, per una ferita di guerra, rimane quasi due anni al sanatorio di Castelnovo ne' Monti. Naif (a sua insaputa), Rovesti «pittore contadino celebre» (che sintetizzava con l' acronimo CE), dietro i quadri, scriveva, oltre al prezzo di vendita, commenti scritti (a pennello): narrazioni dettagliate e piene di rimandi per spiegare quanto aveva inteso rappresentare sulla tela: schede interessanti (e divertenti), scritte in una lingua traballante e sgrammaticata dove manca quasi del tutto la punteggiatura. Le straordinarie vicende della sua vita, invece, sono state raccolte da Alfredo Gianolio (su indicazione di Cesare Zavattini) su «nastrografia»: la viva voce del contadino della Bassa racconta delle sue origini, dei rapporti con Ligabue, dei naifs, del perché partecipò a tutte le guerre del Duce. E nella sua immaginifica lingua, si ritrova l' universo delle terre del Po di un «contadino giù di terra» per niente umile e tanto orgoglioso. Il critico d' arte Sandro Parmiggiani ha curato con passione e precisione la mostra (accompagnata anche dalla prima monografia sull' artista, edita da Skira). Parmiggiani, da dove prendeva quest' incontenibile autostima? «Con "celebre pittore contadino europeo", intendeva ribadire la vastità della fama che la sua opera aveva ormai conquistato. L' Europa era da lui considerata una porzione di mondo così vasta e importante da essere orgogliosamente citata come luogo in cui la sua immagine era diffusa e affermata». Ligabue "compagno di carriola" oltre che suo concittadino: è stato messo in ombra dal compaesano? «Lavorarono assieme, come scariolanti, alla costruzione di una strada lungo gli argini del Po nella seconda metà degli anni '20. Il loro rapporto continuò fino alla morte di Ligabue nel 1965, con alterni sentimenti, soprattutto da parte di Rovesti, che non mancò, anche in interviste, di sostenere la propria superiorità di artista rispetto a Ligabue. Salvo poi, dopo la morte di Antonio, ricordare anche i momenti di amicizia. Rovesti fu assai noto negli anni '50 e negli anni '80: la sua morte, nel 1987, coincise con un progressivo appannamento del mito dei naifs, anche in relazione a nuovi svolgimenti delle vicende culturali. Lui è un artista profondamente diverso da Ligabue, espressionista tragico, anche Qual è la sua posizione all' interno della schiera dei naif? «Fu uno dei maggiori protagonisti dell' arte dei naif italiani ed europei, come testimoniano le presenze alle maggiori rassegne del settore: è un pittore autentico, lontanissimo dai tanti "falsi naifs" di cui lui parla, fintamente ingenui e apparentemente senza una cultura artistica». Perché non voleva vendere? «Oltre al desiderio di non separarsi dai dipinti che amava c' era anche l' astuta diffusione di una sorta di leggenda che contribuiva a fare lievitare le richieste di opere da parte dei compratori, indotti a credere fosse un privilegio riuscire ad avere un suo dipinto». Da dove traeva ispirazione per quei paesaggi colorati? «I suoi quadri sono sogni ad occhi aperti e, insieme, il disagio di fronte agli oltraggi arrecati alla natura e al concreto pericolo che il mondo d' erba, acqua e piante dal quale non aveva mai voluto separarsi, potesse essere spazzato dall' irruzione di ciò che chiamiamo "moderno". Aveva già una coscienza ecologica».