Domenica 22 Dicembre 2024

Emilio Isgrò il "cancellatore": parole e opere rivivono da capo

 
 
 
 
Riproduzione fotografica di Giovanni Pepi
Riproduzione fotografica di Giovanni Pepi
 

MILANO. Al cartesiano cogito, lui ha preferito aboleo, ergo sum. Perché per Emilio Isgrò, artista per passione oltre che per professione, cancellare equivale a pensare. Ma, soprattutto, mettere in discussione identità e certezze. E Milano, la città che l’ha accolto nel 1956, gli rende omaggio con tre mostre allestite in più sedi. Siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, Isgrò è noto per essere il «grande cancellatore». Il suo è un vizio. Anzi, un vezzo, un gesto diventato, da quasi mezzo secolo, un vero e proprio marchio di fabbrica: la sua sigla distintiva. Da quando è nato, il 6 ottobre 1937, l’artista ha già... cancellato dalla Costituzione italiana all’Enciclopedia Treccani ma anche il Debito pubblico e lo Spread al tempo di Monti. Dichiaro di non essere Emilio Isgrò del 1971, invece, è un’installazione di sette elementi e altrettanti fogli di carta serigrafati sui quali si leggono le affermazioni dello stesso Isgrò e della sua famiglia che negano la sua identità. Un autoritratto che, attraverso rinnegamenti, arriva al paradossale diniego di sé: un’opera che manipola il vuoto e costruisce per sottrazione. L’ora italiana è in memoria delle vittime della strage alla stazione di Bologna. Le mostre milanesi sono tutte curate da Marco Bazzini: a Palazzo Reale, una selezione di lavori storici ricca di oltre duecento opere tra libri cancellati e installazioni; alle Gallerie d’Italia, l’anteprima del celebre ritratto di Manzoni dipinto da Hayez cancellato in bianco e, a Casa Manzoni, ci sono I promessi sposi cancellati. Per Isgrò, insomma, cancellare significa negare ma anche creare altro: un gesto costruttivo e non distruttivo «anzi, ricostruttivo», dice con garbata ironia quest’artista audace, enigmaticamente chiaro. E spiega che «la cancellatura serve a creare un incidente ottico in grado di farci vedere e apprezzare quelle stesse immagini che di solito ci circondano e sovrastano. Tutto il mio lavoro è la messa in scena del combattimento tra parola e immagine». Dichiara di essere Emilio Isgrò? O è qualcun altro? «Sono quasi certo di essere Emilio Isgrò. Ma la domanda mi fa venire il dubbio che potrei essere suo fratello. O semplicemente un omonimo». Oggi il suo è un nome iconico ma gli inizi con la prima mostra Il Cristo cancellatore, (38 volumi con il testo quasi del tutto cancellato) non sono stati facili. «L’importante è il finale, non l’iniziale...». C’è chi la definisce artista concettuale, chi poeta visivo. Magari lei si sente dada… «Queste definizioni non mi riguardano: sono solo un cancellatore». Però da piccolo voleva fare il poeta... «Ho cominciato con Fiere del Sud, una raccolta di versi dove raccontavo la storia di un ragazzo del Meridione. L’editore Arturo Schwarz mi pubblicò. A Milano, però, frequentando la Galleria Apollinaire di Guido Lo Noci in via Brera, mi avvicinai all’arte, folgorato dallo spazio blu oltremare di Yves Klein». In Sicilia, il poeta Bartolo Cattafi e Vincenzo Consolo. A Milano, Salvatore Quasimodo, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini: frequentava club di letterati... «Milano, dovem’ero trasferito nel 1956, una vera città d’intellettuali. Una terra promessa dove anche i pigri come me si rassegnavano a lavorare». A Milano conosce e sposa la bionda teutonica Brigitte Kopp: gli estremi si toccano? «Avevo vent’anni... Poi mi sono risposato con Scilla, una friulana con gli occhi a mandorla: mongola di faccia e siciliana di cuore. Non me l’aspettavo». L’artista deve molto al redattore del Gazzettino di Venezia. È lì che si trasferisce nel 1960 con Brigitte «Venezia ha una vocazione internazionale che altre città non hanno. E fu lì, un giorno, al lavoro, davanti ad un articolo pieno di cancellature di Giovanni Comisso che ebbi la folgorazione». Ma per un ex giornalista come lei, cancellare parole non è un controsenso? «Tutt’altro: cancellando, s’impara». Come sceglie i testi da cancellare? «A volte dopo lungo studio, a volte per puro istinto: purtroppo non c’è una regola». Cosa non ha mai cancellato nella sua vita? «Le facce che mi hanno sorriso per amore o interesse: non riesco a distinguerle». Il superfluo che cancellerebbe definitivamente? «L’inglese parlato dai francesi o dai tedeschi: non è servito a niente». Laico. Eppure in Volkswagendel 1964, c’è il nome di Dio… «Laico a metà: credente al mattino, miscredente la sera». Una G per commemorare piazza Fontana? «È la perfetta consonanza con la parola tragedia». Una parola che non cancellerebbe mai? «Pazienza». Il libro sul comodino? «I Canti di Giacomo Leopardi: ne leggo un verso ogni sera. Ed è sempre lo stesso: Sempre caro mi fu quest’ermo colle. Poi mi addormento». Mai pensato di cancellare anche luoghi e persone? «È dagli anni ‘70 che cancello carte geografiche facendo sparire interi continenti, oceani e montagne. Cosa posso fare di più per mettere definitivamente in crisi le Nazioni Unite e la Nato?». La sua Sicilia è terra da cancellare e rifondare? «La Sicilia è mia madre: mi ripete all’orecchio le parole che ho sentito da ragazzo. E, quanto a cancellarla, non posso essere io a farlo con un gesto d’imperio. Devono farlo i siciliani, per rifondare se stessi e la loro vita». Come vive il successo a ottant’anni? «Non lo so perché ne ho quasi 79».

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