ROMA. Il 5 agosto del 1966 usciva in Gran Bretagna «Revolver», per molti il capolavoro dei Beatles, per tutti uno degli album più belli e importanti della storia della musica.
«Revolver» è un disco dall'importanza capitale che segna definitivamente una scelta di campo radicale da parte dei Beatles: da quel momento lo studio di registrazione sarebbe diventato uno strumento capace di dare corpo alle idee più avventurose, il centro della loro musica. Non è un caso che il 29 agosto di quell'anno abbiano tenuto, a San Francisco, il concerto che ha segnato il loro addio alle esibizioni dal vivo.
Influenzati da una parte dalla conoscenza della cultura indiana e dal misticismo orientale e al tempo stesso dall'allargamento della coscienza dell'Lsd, in sintonia con gli esperimenti di Timothy Leary, dall'altra spinti da una riconosciuta rivalità creativa con il Brian Wilson di «Pet Sounds», che era uscito a maggio dello stesso anno, i Beatles entrarono in studio con l'obiettivo di spingere oltre ogni limite la ricerca sonora. Come sempre trovarono il primo alleato in George Martin, il loro storico produttore, sempre geniale nel dare corpo alle idee della band e soprattutto di Lennon, McCartney e George Harrison, ma stavolta arrivarono contributi dai tecnici degli studi di Abbey Road che hanno cambiato per sempre la musica registrata.
Ken Townsend, l'ingegnere del suono, proprio durante queste registrazioni ha inventato l'Automatic Double Tracking, la tecnica che, detta in breve, consente di registrare automaticamente una doppia traccia musicale, mentre un altro ingegnere, fedelissimo di Martin, Geoff Emerick, ha messo a punto rivoluzionarie strategie per registrare gli strumenti (in particolare il basso e la batteria). Con «Revolver» il pop scopre l'uso sistematico dei loop (che all'epoca venivano realizzati con i nastri), gli strumenti suonati al contrario, l'alterazione della velocità di registrazione, le sovraincisioni, l'utilizzo di strumenti inconsueti come quelli della tradizione indiana ma anche di brani, come «Eleanor Rigby», in cui i Beatles non suonano, perchè l'accompagnamento musicale è fornito solo da un ottetto d'archi.
Uno stupefacente salto in avanti creativo che ha richiesto anni per essere capito fino in fondo dal mondo della musica e che inevitabilmente contiene i germi di molta musica che verrà, dall'elettronica al punk e perfino la World Music. «Revolver» è anche il frutto di uno sforzo collettivo della band: George Harrison contribuisce con tre brani, il polemico «Taxman», «Love You To» (che ha coinvolto musicisti della comunità asiatica della Londra di allora) che segna il suo primo tentativo di compositore di utilizzare la musica classica indiana, «I Want To Tell You», una chiara testimonianza di militanza nella cultura lisergica. Da questo punto di vista il capolavoro è «Tomorrow Never Knows», una creazione lisergica di John Lennon ispirato dagli scritti di Timothy Leary che apre le porte alla psichedelia e mette insieme influenze orientali con i loop, ispirati dall'uso del nastro magnetico nella musica di Stockhausen. Non è difficile leggere in questa chiave anche un altro pezzo di John, «Ìm Only Sleeping», in cui George ha inciso al contrario il suo assolo di chitarra che poi sarà registrato e stampato nella direzione corretta. Se «Yellow Submarine», in cui si ascolta la voce solista è affidata a Ringo, «Here, There and Everywhere» e «She Said She Said» alternano metri ritmici differenti, mentre «For No One», un altro gioiello riletto in modo magistrale qualche anno più tardi da Caetano Veloso, viene considerato uno dei primi segnali importanti della tendenza di Paul McCartney ad accentrare il processo creativo e realizzativo.
«Revolver» segna un passo decisivo anche nella grafica grazie alla copertina in bianco e nero realizzata da Klaus Voorman, il bassista tedesco amico della band dai tempi di Amburgo, utilizzando fotografie, disegni e collage. Si chiude così il cerchio su un album che ha cambiato il corso della musica e che 50 anni fa ha cominciato a raccontare il futuro.
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