PALERMO. Usare le cose. Rendendole personali, ovvero rintracciando al loro interno, un’anima intima che esce allo scoperto. Manipolazioni, cancellature, puzzle, pongo, trafori, serie di libri, intrusioni autorizzate in un mondo artistico che spesso è noto a pochi. Stefano Arienti si getta a capo basso contro la proliferazione di immagini, un sapere compresso, dove ciascuno può ritrovare il proprio ambito di interesse; e cerca, spulcia, sgancia, indaga fino a quando l’essenza viene portata allo scoperto. Come in questa antologica – Mano d’oro, ospitata fino al 22 settembre da Francesco Pantaleone arte contemporanea – in cui l’artista mantovano avvia una riflessione sul peso del denaro nell’arte. Il mondo indotto dei mercanti d’arte, le quotazioni senza paracadute, il valore che abbandona il campo al merito, il piccolo che diventa immenso e il grande che nessuno comprende appieno: Arienti osserva e vigila, e quando giudica lo fa per tracce, come questo minimo elemento d’oro che ritorna insistentemente in molte opere, come mollichine di un Pollicino perduto. Mano d’oro – secondo la curatrice Agata Polizzi – è una «riflessione sulla globalizzazione che non è solo appiattimento culturale ma peggio, perdita dell’identità e della specialità a vantaggio di un possesso non più intellettuale quanto piuttosto materiale. Un accumulo che diventa spreco, sottrazione di energie ed effimera corsa verso il nulla, nella vita come nell’arte». Questo nuovo progetto siciliano, pensato per la galleria di Pantaleone, va avanti colpendo alla cieca chi invece si professa snob: Arienti non lo è, sin dai primi anni Ottanta ha cominciato ad usare materiali semplici, destrutturati. Ma è stato lui stesso a raccontare che il suo avvicinamento al mondo dell’arte è stato più un gioco collettivo che un reale interesse. Nato da una famiglia contadina, Arienti ha studiato Agraria a Milano; soltanto come «amico degli amici architetti» ha cominciato a lavorare alle performance della Brown Boveri, avvicinandosi all’arte con curiosità da autodidatta. La Pop art è un titolo, Forma 1 abbastanza lontana, gli artisti sono altro, e Arienti in mezzo a loro non ci si trova. Ma la sua semplicità di pensiero e di concezione sono diventati ragion d’essere. E la totale assenza di «snobismo culturale», la matrice generativa della sua intera produzione. «La sua esperienza artistica è un chiaro esempio politico fatto di “gesti minimi” per dimostrare che è possibile fare arte mescolando più elementi, più immagini e oggetti derivati da ambiti culturali differenti, senza alcuna impositiva intellettuale», scrive Agata Polizzi. Nel 1985 Arienti in occasione della sua prima collettiva milanese, sceglie come atto artistico di intervenire sulla muffa delle pareti della fabbrica dismessa, circoscrivendola con gessi colorati. L’operazione è semplice ma abbastanza forte per evidenziare i segni crudeli del tempo. Da allora la manipolazione di soggetti di uso quotidiano, diventa quasi ossessione. Tra i suoi primi lavori del 1986, ci sono le Alghe, nate tagliuzzando le buste di plastica da supermercato. Tagliandole si ottenevano forme misteriose, sulla linea degli chef giapponesi. Da qui è nata anche la grande passione di Stefano Arienti per la carta, i fogli, i libri, le enciclopedie. E quindi, gli usi ad essi legati, piegare, tagliare, comporre. Mano d’oro è anche una sorta di giro di boa, una mostra antologica in una città drammatica e contraddittoria: tecniche e medium sono sempre gli stessi – come le Turbine e le Cancellature - , ma a cambiare è il rapporto con l’immagine, disciplinato dall’artista che spesso trova nella serialità – vedi il lavoro ispirato esplicitamente a Van Gogh – una ragion d’essere. Come per i grandi lavori su telo antipolvere con raffinate pitture in oro, multipli di opere/icona dell’artista olandese replicate quasi fossero livelli di un video-game. La galleria è aperta dal martedì al venerdì, dalle 10.30 alle 19.30 e sabato fino alle 18.30.