ROMA. Meno male che Peggy c’è stata. Ma, senza l’aiuto di uno zio Paperone, la storia (forse) avrebbe avuto un altro corso. Lui è Solomon Guggenheim, ideatore del museo omonimo; la nipote, l’enfant terrible della dinastia Guggenheim, è Marguerite, detta Peggy, che collezionò amori, amici ma, soprattutto, quadri. Visse d’arte e d’amore questa donna eccentrica, scandalosamente controcorrente ma punto di riferimento per molti pittori del XX secolo. A Firenze, a Palazzo Strozzi, fino al 24 luglio, le collezioni di zio e nipote s’intrecciano e diventano un’unica mostra: Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim(curatela di Luca Massimo Barbero). Un confronto tra due collezioni attraverso più di cento opere realizzate tra gli anni ’20 e i ’70: dalla Curva dominante di Kandinskij alla Scatola in valigia di Marcel Duchamp. E poi Max Ernst, Alberto Burri, Lucio Fontana, Emilio Vedova (che Peggy andò a conoscere di persona al ristorante veneziano «Angelo»), diciotto Jackson Pollock, Mark Rothko, Robert Motherwell e Roy Lichtenstein. Ma anche le bottiglie «dada» del primo marito di Peggy, Laurence Vail, e Studio per uno scimpanzèdi Francis Bacon. La Guggenheim è una donna che visse «fuori da questo secolo» (per citare il titolo dell’autobiografia Out of this century, dove tra le altre cose, snocciola i nomi dei suoi tanti amanti, da Samuel Beckett a Piet Mondrian). Zio e nipote, due modi d’intendere il collezionismo ovvero il museale contro l’ emozionale. Nata il 26 agosto 1898 a New York, Peggy è figlia di Benjamin Guggenheim che muore il 15 aprile 1912 sul «Titanic» dove s’era imbarcato con l’amante francese, la cantante Léontine «Ninette» Aubart (che si salva). Se dalla «titanica» tragedia Peggy non si è mai risollevata, i problemi finanziari che seguirono furono appianati grazie alla solidarietà degli zii Guggenheim (Solomon, in testa) e all’eredità che la madre ebbe dalla sua famiglia. A 21 anni, Peggy eredita 450 mila dollari: una fortuna «piccola» se confrontata con quella dei parenti paterni «che non erano ricchi ma mostruosamente ricchi». A iniziare proprio da Solomon: il più ricco dei Guggenheim (grazie alla Yukon Gold Company fondata in Alaska) ma anche quello con più fiuto, per il fortunato incontro con la baronessa-artista Hilla Rebay che lo introduce e lo guida nel mondo della pittura. I quadri che gli fa acquistare sono così numerosi che presto diventano una collezione da esporre. E, dopo tante mostre per il Paese, nel 1937, nasce la Fondazione Solomon R. Guggenheim allo scopo di «promuovere, incoraggiare, educare all’arte e illuminare il pubblico». All’epoca, l’indipendente nipote Peggy, ha quasi quarant’anni, e viaggia moltissimo. Nel 1922, a Parigi, sposa lo scrittore-scultore Laurence Vail (che la introduce nei salotti bohémien della città) da cui avrà due figli, Sinbad e Pegeen. Dopo il divorzio, nel 1928, in un vorticoso evolversi di relazioni sociali, erotiche e sentimentali, Peggy inizia a finanziare scrittrici, artisti e amanti diventando una vera mecenate. E se nel 1937 zio Solomon ha già l’omonima Fondazione, nel 1939, al 30 di Cork Street, a Londra, Peggy apre «Guggenheim Jeune», la sua galleria (anche se ha in mente un museo di arte moderna): è questa la base di quella che passerà alla storia come la collezione Peggy Guggenheim. Herbert Read direttore, Samuel Beckett e Marcel Duchamp consulenti per esposizioni di Jean Cocteau, Max Ernst, Hans Arp, Yves Tanguy, Vasilij Kandinsky e Alexander Calder: artisti che la Guggenheim contribuisce a far conoscere. E se zio Solomon ha talmente ingrandito la sua collezione che, nel 1943, incarica Frank Lloyd Wright della progettazione d’un museo sulla Fifth Avenue a New York («il garage di mio zio», lo definisce Peggy), lei, nel 1941, quando i nazisti invadono Parigi, torna negli Stati Uniti con tutti i suoi quadri, due figli, un ex marito e il futuro coniuge Max Ernst. Nell’ottobre del 1942, la volitiva Peggy inaugura a New York, sulla 57ma strada, «Art of this century», galleria dove i quadri non sono appesi ma poggiati su strutture. All’inaugurazione indossa «un orecchino di Tanguy e uno di Calder per dimostrare imparzialità tra arte surrealista e quella astratta». E se all’ inizio la nuova galleria presenta soprattutto surrealisti europei e cubisti, ben presto, sarà la culla per gli americani dell’Uptown Group come Jackson Pollock e Hans Hofmann. L’esperienza newyorchese dura cinque anni; nel 1947, Peggy torna in Europa e, l’anno dopo, alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra, espone la sua collezione di Pollock e Mark Rothko: due artisti mai visti prima in Europa. Nel 1948, acquista Palazzo Venier mentre, nel 1950, al Museo Correr, organizza la prima personale di Pollock. Nel 1962, riceve la cittadinanza onoraria di Venezia e, tra il 1970 e il 1976, decide di donare dimora e collezione d’arte alla Solomon R. Guggenheim Foundation di New York a patto, però, che tutto resti nella sede veneziana. Nel 1979 muore all’ospedale di Camposampiero: le sue ceneri sono in un angolo del giardino di Ca’ Venier, accanto a quelle dei suoi quattordici amati terrier tibetani. «Il modo di intendere l’arte di Solomon e Peggy - dice il curatore Luca Massimo Barbero - sono due facce della stessa medaglia: lui sistemico, lei emozionale». Peggy ha fatto la storia dell’arte americana: splendide intuizioni o conoscenze profonde? Secondo Barbero, «si lasciava guidare dal suo carattere curioso, voleva conoscere i movimenti da dentro per seguirne il flusso vitale. S’era fatta scrivere da Ernst, Duchamp e Read una lista d’artisti per completare l’idea di quella collezione d’arte che aveva in mente. Ma era solo lei a scegliere: aveva la parola finale sul nome su cui puntare». Quindi anche grande intuito. «Ad individuare le opere più rappresentative certo non le più importanti». Non si può non pensare che dedicandosi al collezionismo come lo zio non entrasse in conflitto con lui. «No - assicura Barbero - era il modo delle famiglie più facoltose per scalare posizioni nella società americana. Peggy non è in concorrenza con lo zio: lui istituzionale, lei vitale si getta sull’arte contemporanea. Una donna che viveva il suo tempo: non cercava il potere ma l’energia». Ma se Peggy fosse stata un uomo, la sua storia sarebbe stata ugualmente iconica? «Chi può dirlo? - si chiede il curatore della mostra -. Forse solo più banale». E quanto deve Venezia a Peggy? «Molto. Ma anche Peggy deve molto a Venezia: il loro è stato un rapporto tra due grandi donne. Anzi, tra una “dogaressa” e una città dal respiro internazionale grazie alla sua Biennale».