«Quando stamattina ho sentito della tragedia di Crotone mi sono sentito male. Come allora, anche se sono passati dieci anni. La sensazione di essere un rifiuto è tornata alla memoria, ed è dolorosissimo. Assistevano alla nostra morte come spettatori. Aspettavano a soccorrerci mentre molti di noi morivano. E’ stato terribile, e lo è tuttora ricordarlo». A parlare è Wahid Hasan Yousef, cardiochirurgo curdo siriano, che nel naufragio del 10 ottobre 2013, conosciuto come ‘la strage dei bambinì a Lampedusa perse quattro figlie di due, cinque, sette e dieci anni. Si contarono 268 dispersi e 26 morti. Tra loro c’erano 60 bambini.
Yousef si salvò insieme a sua moglie. Oggi vivono in Germania, a Dusseldorf, e hanno avuto due bambini: «Se non fosse per loro, che chiedono sempre delle sorelle, sarei già morto di dolore. E’ per loro che vivo». La moglie non parla con nessuno della tragedia che li ha colpiti, se accenna qualcosa scoppia in lacrime e si sente male. Solo lo scorso anno si è recata a Lampedusa con il marito, ma il dolore di ritrovarsi lì le è stato intollerabile.
«Sono addolorato - dice - quelli morti in mare sono esseri umani che dovevano e potevano essere salvati. E mi rivolgo all’Italia e all’Europa: recuperate i corpi delle vittime, noi non abbiamo mai potuto rivedere quelli delle nostre figlie. Anche i morti vanno recuperati perché si ha bisogno di avere un posto dove piangerli».
Yousef ripercorre quel terribile 10 ottobre e racconta l’assalto di una motovedetta libica al peschereccio, «arrivarono molte raffiche di mitra sparate per fermare l’imbarcazione sulla quale viaggiavamo che ferirono tre persone e danneggiarono lo scafo facendogli imbarcare acqua». Il tono della sua voce si alza quando ricorda: «Aspettammo inutilmente i soccorsi dalle 12 fino alle 17.07, quando l’imbarcazione si capovolse e molte persone a bordo morirono, tra cui le mie figlie». Eppure, ammette, in dieci anni nulla è cambiato: «Lancio un appello ai governi europei affinché incentivino la pace e fermino le guerre a causa delle quali molti partono e trovano la morte in mare».
Le parole di Yousef diventano quasi una preghiera dopo il ricordo doloroso dei suoi lutti: «Dove sta l’umanità? Dio ci ha creato tutti uguali, siamo tutti essere umani, tutti, e non deve esistere che alcune vite contino meno di altre, che siamo come rifiuti appunto».
Come immagine di whatsapp il medico, oggi invalido, ha la foto delle quattro figlie che guardano nell’obiettivo: si somigliano tutte, hanno i capelli ben pettinati con fermagli e cerchietti. E sorridono. Almeno lì.
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