Mercoledì 18 Dicembre 2024

Bambini dentro, storie di innocenti dietro le sbarre con le mamme

 
 
 
 
 
 
 

Lo scuolabus arriva puntuale alle 7.35. Maria attraversa il portone blindato senza voltarsi, stringe la mano della mamma e si incammina con il suo zaino rosa sulle spalle. Prima di salire le stampa un bacio sulla guancia. E’ sola, sul pulmino: gli altri bambini non devono sapere dove vive Maria. Perché la casa di Maria è diversa. Maria vive in carcere. Non è l’unica, Maria. C’è anche Raayn, che come torna da scuola salta in braccio alla mamma con gli occhi che ridono e poi corre in giardino a tirare calci ad un pallone, che rotola inesorabile verso la recinzione alta dieci metri. E ci sono Mariam e Gabriele, Armando e Miriam. Sono ventuno, in tutta Italia. Sono «i» ventuno: bambini che hanno meno di sei anni e vivono con le mamme detenute che stanno pagando per gli sbagli che hanno fatto. Innocenti. Tutti quanti. Incolpevoli. Tutti quanti. Indifesi. Tutti quanti. Eppure: la prima cosa che vedono quando aprono gli occhi sono le sbarre alle finestre e la prima cosa che capiscono è che la mamma non giocherà con loro al parco e non li accompagnerà alle feste degli amichetti. «Mai più bambini in carcere. Anche un solo bambino costretto a vivere ristretto è troppo». Davanti al Parlamento, il 17 febbraio, il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha ribadito il primo obiettivo del governo. Ma, come dimostrano proprio i 21 che ancora vivono dietro le sbarre, la realtà è molto più complessa di quello che sembra. Perché la volontà deve fare i conti con i pregiudizi. Ci sono le responsabilità dei magistrati di sorveglianza, che hanno ampia discrezionalità nel concedere misure alternative. Ci sono le condizioni oggettive delle madri: la mancanza, per molte, di un domicilio vero e contesti familiari di assoluta indigenza che renderebbero l’alternativa dei domiciliari peggiore del carcere. E c’è un rifiuto generalizzato della società a reinserire queste donne in un contesto sociale e lavorativo adeguato, una volta concluso il percorso carcerario. Dei 21, quelli che si trovano in un carcere vero e proprio sono 6 e sono tutti nella sezione femminile di Rebibbia, insieme a 4 madri, due delle quali hanno condanne definitive. A gennaio non ce ne era nessuno e a fine febbraio c’era un solo bambino: sono numeri che cambiano ogni mese e in ogni caso si cerca di ridurre al massimo il numero dei piccoli nei penitenziari. Per tutti gli altri, invece, la casa si chiama Icam, Istituto a custodia attenuata per madri detenute. Introdotti con la legge 62 del 2011, sono 5 in Italia - a Lauro, in provincia di Avellino, Milano, Torino, Cagliari e Venezia - e sono strutture dedicate esclusivamente a donne con figli fino a 6 anni, che diventano 10 se la pena è definitiva. Le differenze con il carcere sono tante, a partire dagli agenti della polizia penitenziaria che sono in borghese. La legge ha previsto anche le case di famiglia protette, dove le condizioni di vita sono migliori e più adeguate a dei bambini, senza però obbligare lo Stato a finanziarle. E il risultato è che in tutta Italia ce ne sono soltanto due, la casa di Leda a Roma e l’associazione Ciao a Milano. La strada per cambiare, però, è aperta. Dal 2019 è ferma in commissione Giustizia una proposta di legge del deputato del Pd Paolo Siani che individua in queste strutture protette l’unico luogo dove possano vivere i bambini figli di madri condannate, prevedendo l’obbligo di finanziamento statale, e introduce alcune modifiche al codice di procedura penale per rendere possibile la detenzione negli Icam solo in presenza di “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza». Con la legge di bilancio 2020, inoltre, il governo ha stanziato 4,5 milioni per il triennio 2021-2023 per potenziare le case famiglia. Saranno i prossimi mesi a dire se, finalmente, si riuscirà ad azzerare quel numero. Nel frattempo, i bambini continuano a vivere in carcere e negli Icam. Tre anni fa, nel 2019, erano 48, più del doppio di quelli di oggi. Ed erano saliti a 59 all’inizio del 2020. Poi però è arrivato il Covid. E il virus è riuscito laddove le norme e la società, finora, hanno fallito. Ma i 21 dietro le sbarre, come vivono davvero? A passare del tempo con loro, la prima sensazione è che sembrano uguali a tutti gli altri. Anzi: in carcere a questi bambini è permesso di essere bambini davvero, cosa che molto spesso, fuori, non gli sarebbe concessa. Vanno a scuola, tutti i giorni, sono seguiti dal punto di vista educativo, psicologico, sociale. Fanno visite mediche ogni volta che ne hanno bisogno e hanno giochi di ogni tipo. Ma un carcere resta sempre un carcere. I problemi principali, a sentire gli esperti, sono due: il rapporto con le madri, che molto spesso non trovano il coraggio di raccontare loro la verità minando il rapporto di fiducia, e il rischio che per questi bambini ci sia la normalizzazione del carcere. «Se un bambino rimane in carcere per tanto tempo - spiega la criminologa del carcere delle Vallette a Torino Marisa Brigantini - interiorizza una serie di situazioni penitenziarie. Il bambino che mi dice ah tu non ti rendi conto ma io sto crescendo dietro le sbarre, magari non si rende conto oggi di cosa mi sta dicendo ma domani questa roba lui la ricorderà». Sono le 16.30 quando lo scuolabus si ferma davanti al cancello dell’Icam. Maria scende. E’ sola anche adesso. Si avvia verso il portone blindato e anche stavolta non si volta indietro. La porta si apre, la mamma l’abbraccia. Un giorno quel cancello si aprirà per sempre e Maria andrà incontro alla vita. E la speranza è che lo Stato si ricordi di lei e di tutti gli altri bambini innocenti anche quando le madri avranno scontato le loro pene. Per evitar loro il carcere della vita.

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