Mentre il cinema italiano si celebrava ieri nella notte dei ritrovati David di Donatello «in presenza», sotto i riflettori di Cinecittà, Lino Capolicchio se ne andava in silenzio in quella stessa Roma che aveva scelto da giovane attore pieno di speranze quando vi sbarcò da Torino per frequentare l’Accademia d’arte drammatica. Nato a Merano il 21 agosto del 1943, era cresciuto a Torino (a Borgo San Donato) dove Massimo Scaglione lo portò per la prima volta in palcoscenico. Sarà però Giorgio Strehler a intuirne tutta la duttilità espressiva arruolandolo al Piccolo Teatro di Milano per una memorabile edizione delle «Baruffe chiozzotte» di Goldoni nel 1964, seguite l’anno dopo da“il gioco dei potenti». Il teatro piace a quel giovane biondino dall’aria triste e dalla volontà di ferro, ma ci sono la televisione e il cinema a sedurlo quasi in contemporanea: nel 1966 Edmo Fenoglio gli garantisce visibilità sul piccolo schermo con il ruolo di Andrea Cavalcanti nel «Conte di Montecristo» per il piccolo schermo; subito dopo Franco Zeffirelli lo chiama sul set di «La bisbetica domata» dove, nonostante un piccolo ruolo, impara a frequentare il set con la benedizione di un «mostro sacro» come Richard Burton. Ancora un anno di apprendistato e Roberto Faenza lo rende primo attore nel suo film d’esordio, «Escalation» (1968). Sono i primi segni di una carriera ricchissima, percorsa con discrezione e puntiglio, animata dal sacro fuoco della recitazione, ma anche dal distacco dell’intellettuale di buone letture che fanno di Lino Capolicchio un protagonista singolare del cinema italiano tra la fine degli anni ‘60 e appena ieri.
I funerali si terranno venerdì pomeriggio alle 16.30 (chiesa di Santa Maria a Fondi), mentre alla Casa del Cinema di Roma Capitale lo ricorderanno il figlio Tommaso, la sua compagna, il regista e sodale Pupi Avati, insieme gli amici e ai colleghi mercoledì 11 maggio alle 18.30. Chi era davvero Lino Capolicchio? Il timido Giorgio del “Giardino dei Finzi Contini» di Vittorio De Sica (dal romanzo di Giorgio Bassani) che nel 1971 gli regalò il David di Donatello come miglior attore o il tormentato e ambiguo Ric di «Metti una sera a cena» diretto nel 1969 da Giuseppe Patroni Griffi? Era il “Giovane normale» di Dino Risi o lo sfortunato restauratore Stefano di «La casa dalle finestre che ridono» con cui nel 1976 Capolicchio avviò con Pupi Avati un sodalizio umano e artistico durato tutta la vita, fino al recente «Signor Diavolo» del 2019? Di certo molti dei suoi film (33 in 50 anni di carriera) e le sue fortunate apparizioni televisive (una trentina in tutto) restituiscono una personalità attoriale duttile, poliedrica, sensibile e vitalissima. Ma nell’immaginario collettivo rimarrà per sempre quel giovane ammantato di malinconia e di segreti rovelli che lo aveva caratterizzato fin dall’inizio. Non aveva un carattere facile anche fuori dal set: preferiva il silenzio e la lettura alle compagnie chiassose, ma sapeva essere caldo e generoso come potrebbero testimoniare i molti giovani attori cui ha saputo dare una chance: dai suoi allievi alla Scuola Nazionale di Cinema (tra gli altri Sabrina Ferilli, Iaia Forte, Alessio Boni) a quel Pierfrancesco Favino che fece debuttare nella sua unica regia, «Pugili» del 1995. Da attore era un perfezionista implacabile che molto chiedeva a se stesso: ha lavorato con maestri come Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, i Fratelli Taviani, Peter Del Monte, Sandro Bolchi, Giorgio Pressburger, Mauro Bolognini, mentre a teatro dopo Strehler si è misurato con Raf Vallone (“Uno sguardo dal ponte”), Elio Petri (“L’orologio americano”), Luca Ronconi (“La commedia della seduzione”), Peppino Patroni Griffi (“La dolce ala della giovinezza”), Luca De Fusco (“Senilità”).
Amava la grande musica e firmò una delicata «Bohème» da regista e poi una “Manon Lescaut» che esaltava la sua sensibilità pucciniana. Ma non rinnegò mai il suo professionismo prestando volto e mestiere tanto al cinema d’avanguardia che a quello più popolare, compreso il genere thriller e lo sceneggiato da grande ascolto. Un capitolo a parte, di certo il più importante della sua vita, riguarda però la collaborazione con Pupi Avati con cui, dopo «La casa dalle finestre che ridono», avrebbe lavorato altre sette volte. Si tratta di titoli che marcano le diverse stagioni del nostro cinema e della migliore televisione. Basti ricordare il trionfale successo televisivo di «Jazz Band» e «Cinema!!!», un film di culto come «Le strelle nel fosso», la fiaba storica di “Noi tre», il doloroso «Una sconfinata giovinezza» (Nastro d’argento speciale), fino al «Signor Diavolo» in cui per l’ultima volta avrebbe fatto coppia con un altro volto «di casa Avati» come Gianni Cavina. Oggi, a 78 anni Lino Capolicchio fa l’ultimo inchino e se ne va col suo sorriso dolce venato da segreta tristezza che non potremo dimenticare.
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