Quarant’anni dopo ai moschettieri azzurri non ci avrebbe pensato neanche Dumas. Ci abbiamo pensato noi, italiani - dopo avere ignorato il decennale, il ventennale e il trentennale - per due motivi: il primo, rimpiangere Paolo Rossi che ci ha lasciato troppo presto, quel Pablito che è stato il protagonista del Mundial assieme a Zoff (se Dino non avesse parato quel colpaccio di Oscar saremmo andati tutti a casa); il secondo, far buon uso di una Vittoria messa in banca per gli inevitabili giorni di una depressione che l’Italia non si fa mai mancare. Non a caso il successo del 1982 ebbe un peso politico eccezionale: il pallone, come la pietra filosofale, trasformò il piombo di quegli anni nell’oro di cui avevamo bisogno per tornare a vivere decorosamente.
Di lì a poco, infatti, ci fu il boom del Made in Italy: Armani aveva già vestito la Nazionale, stava esplodendo lo stile Della Valle, Montezemolo azzurrava altri sogni mentre Franco Uncini diventava campione del mondo della 500. Serve, lo sport, eccome. Pertini lo capì a modo suo, aprendo la striminzita lista dei fiduciosi seguaci di Bearzot (quorum ego) dicendo francamente, come usava, «Lasciatelo lavorare in pace, sa quel che fa, è onesto e perbene».
Si era appena riacceso il sorriso di Pablito, vibrava ancora nell’aria l’urlo di Tardelli e il carro dei vincitori si trasformava in un accogliente lungo treno pieno di pentiti cui lo stesso Pertini - illuminato - sottrasse gli Azzurri, invitandoli nel suo aereo personale, offrendogli un’altra partita: la sua, a scopone, con Bearzot, Zoff e Causio. Fummo reduci felici da quell’avventurosa spedizione e ritrovammo l’Italia intera con noi. Il perentorio ordine presidenziale accese il popolo, convertì qualche pusillanime spaventato, preoccupò ma non convinse la massa dei critici mediatici capeggiati da un Gianni Brera scettico (però corretto) seguito da dozzine di scribi obnubilati e insolenti. Il calcio era passato in secondo piano, divorato dalle caste intellettuali e dalla politica, e invece dopo la laboriosa e stremante qualificazione di Vigo, a Barcellona, con l’Argentina, le idee e gli uomini di Bearzot realizzarono il bello del calcio che è sintesi di qualità e rendimento. Era talmente bella - e feroce - quell’Italia che innervosì vieppiù i denigratori mentre il mondo intero, dopo il Brasile - lo gridò Mick Jagger vestendo sul palco di Torino la maglia di Paolo Rossi - ci accreditò una possibile Vittoria sulla Germania. I teutoni, razionali, ci fecero da sparring partner al Bernabeu mentre Pertini danzava in tribuna d’onore insieme al (romano) Re di Spagna inducendo al sorriso anche il cancelliere Helmut Schmidt.
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