Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Contenuto a cura di Nicola Piazza, avvocato, già professore di diritto commerciale nell’Università di Palermo

La Legge e Noi

La durata del processo penale e l’opportunità del Pnrr

Il Piano fissa come obiettivo fondamentale dei progetti e delle riforme la riduzione del tempo del giudizio. La prescrizione è una mancata tutela per le persone offese e rappresenta una sconfitta per lo Stato

La giustizia penale è perennemente al centro dell’attenzione di operatori del diritto, politici, organi di stampa e della stessa opinione pubblica. Tra i vari profili che si potrebbero affrontare, uno di quelli che mi sembra maggiormente interessante è il tema legato alla durata dei processi.

Già nel 1946 un grande giurista, Francesco Carnelutti, scriveva che, «se il processo penale è di per sé una pena, bisogna almeno evitare che la stessa abbia una durata irragionevole». Si comprende, pertanto, la ragione per la quale la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4.11.1950 e ratificata con l. 4.8.1955, n. 848, dichiari che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole». E perché ora tale concetto sia solennemente sancito dall’art. 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 23.11.1999, n. 2, per il quale – tra l’altro – «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata».

A quanto sin qui osservato, va aggiunto che il Piano «Italia Domani», noto come «Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza» (PNRR), che si inserisce nel programma «Next Generation EU» (NGEU), prevede, in relazione al settore Giustizia, ingenti risorse purché l’Italia riduca i tempi di durata dei procedimenti penali del 25%, a fare data dal 2026. In particolare, il PNRR evidenzia come «obiettivo fondamentale dei progetti e delle riforme nell’ambito del settore giustizia è la riduzione del tempo del giudizio, che oggi continua a registrare medie del tutto inadeguate».

A ben vedere, il tema della durata del processo penale si interseca con quanto prevede l’art. 27 della Costituzione, il quale fissa il principio di non colpevolezza: «l’imputato non è considerato colpevole sino alla sentenza definitiva». Concetto che l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo esplicita in maniera più netta: «ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata». E la lunghezza del processo, ovviamente, incide negativamente sulle stesse vittime del reato.
Nel nostro Paese, tuttavia, in passato, piuttosto che cercare di ridurre i tempi del processo, si è agito sul versante della prescrizione, allungandone i termini, bloccandola dopo il primo grado e, da ultimo, ibridandola con l’innovativo istituto della improcedibilità.

Certo, è bene precisare che quando interviene la prescrizione si verifica una sconfitta per lo Stato, una mancata tutela per le persone offese, un grave danno per tutti i soggetti indagati o imputati, da ritenersi non colpevoli (art. 27, comma 2, Cost.) o innocenti (art. 6, comma 2, CEDU), sino alla (eventuale) sentenza definitiva di condanna. Tuttavia, per evitare tale esito, piuttosto che «scaricare» la responsabilità sulla prescrizione ed intervenire su di essa allungandone la durata o eliminandola del tutto, si dovrebbe operare su piani diversi.

Molto è stato fatto, recentemente, per raggiungere gli obiettivi del PNRR, come ha chiarito il Ministro Nordio nella Relazione sull’amministrazione della Giustizia nell’anno 2024, presentata qualche settimana addietro al Senato. Infatti, gli ultimi dati disponibili, aggiornati al primo semestre 2024, indicano una riduzione pari a -32,0% nel settore penale rispetto al 2019 (anno base di riferimento del PNRR). Nel settore penale, quindi, la variazione ha superato quella richiesta dal target PNRR.

I dati, dunque, sono ora confortanti, ma si può fare ancora meglio. Per quanto riguarda gli aspetti riconducibili al diritto penale sostanziale, la via maestra potrebbe essere rappresentata dalla riduzione della sfera del penalmente rilevante: è evidente che la macchina giudiziaria non regge il carico. Ma deve essere il legislatore a effettuare le opzioni di fondo, con la abrogazione o con la depenalizzazione; altrimenti, ci si deve affidare alle discrezionali scelte del pubblico ministero, in materia di selezione del materiale, e del giudice, con gli sdrucciolevoli istituti della sospensione del processo con messa alla prova e, soprattutto, della «particolare tenuità del fatto».

Nel campo processuale, si potrebbero (tra le varie misure possibili) prevedere sempre notifiche telematiche, imponendo a tutti i soggetti comunque coinvolti nel procedimento penale – quindi, persone informate sui fatti, testimoni, consulenti – di attivare, dopo la prima notifica, una PEC (magari a spese dello Stato). Inoltre, si dovrebbe limitare ulteriormente il dibattimento ai soli casi di ampia valutazione, incentivando in misura ancora più decisa l’accesso ai riti alternativi.

Naturalmente, si potrebbe intervenire anche sui profili ordinamentali, gestendo cioè più razionalmente le esigue risorse esistenti; anche se in tale ambito sono da annotarsi come assai positivi i recenti interventi sul versante della copertura di tutti gli organici ancora vuoti, sia per quel che attiene ai magistrati che per quel che concerne il personale amministrativo. Tutte queste ulteriori misure potrebbero incidere ulteriormente sulla durata ragionevole del processo, senza violare i diritti inviolabili della difesa (art. 24, comma 2, Cost.).

*Professore Ordinario di diritto penale nell’Università di Palermo

 

La rubrica "La legge e noi" è a cura di Nicola Piazza, avvocato, già professore di diritto commerciale nell’Università di Palermo

Commenta la notizia