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Contenuto a cura di Nicola Piazza, avvocato, già professore di diritto commerciale nell’Università di Palermo

La Legge e Noi

L’importanza di diritto e interdittive nella lotta alla mafia

È un istituto con marcate caratteristiche cautelari e deve fondarsi su indizi gravi, precisi e concordanti. Uno Stato forte deve agire con la precisione del filo a piombo e non usando la ruspa

Come ci ricorda la prefazione ad un prontuario in materia di legislazione antimafia di recente pubblicazione, Padre Bartolomeo Sorge – l’indimenticato gesuita anima del Centro Pedro Arrupe a cavallo tra gli ’80 e ’90 del secondo scorso – ammoniva circa l’esigenza di utilizzare nella lotta alla mafia ogni sorta di risorsa: «dalla ruspa al filo a piombo». E non si può negare che, nei decenni terribili che abbiamo alle spalle, lo Stato – almeno a partire da un certo momento – abbia fatto proprio quell’aureo suggerimento, dando fondo ad ogni possibile iniziativa legislativa e giudiziaria, che nel complesso ha assestato colpi durissimi alla criminalità organizzata.

Le interdittive antimafia ne sono, per così dire, un fulgido esempio. Provvedimenti amministrativi, adottati dal Prefetto sulla base di un parere di un qualificato organo tecnico composto dai rappresentanti dei vari organi di polizia, che, sulla base della verosimiglianza del giudizio di attualità del pericolo di condizionamento mafioso, determinano l’espulsione dell’impresa dal circuito legale, ossia il divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, e la revoca dei provvedimenti amministrativi favorevoli.

Si tratta di un provvedimento che conclude un procedimento senza le garanzie di rimedi altrettanto incisivi adottati dal Giudice di Prevenzione: il sequestro e la confisca (che a loro volta, per quanto disposti da un Tribunale, non hanno le garanzie proprie del processo penale).

Una misura, però, della quale, anche nel presente, non può farsene del tutto a meno, specie dopo che, grazie ad una recente riforma (2021), sono state circondate da garanzie per il privato, a cominciare dall’introduzione di una norma che obbliga il Prefetto, salvi casi eccezionali, ad instaurare un contraddittorio preventivo con l’imprenditore.
Una misura necessaria, dicevamo.

Ma sta all’interprete – innanzi tutto a chi la applica – farle assumere la foggia più del «filo a piombo» che della «ruspa». Se tutto è mafia, infatti, niente è mafia. E allora l’attualità del tentativo di condizionamento mafioso non può farsi risalire – come, invece, talvolta accade – al mero legame parentale, o ad episodi isolati privi di significato, o peggio remoti nel tempo. Per quanto si tratti di un istituto con marcate caratteristiche cautelari (ed anzi: proprio per questo), deve pur fondarsi su indizi gravi, precisi e concordanti. Almeno così ci ricorda il Giudice Amministrativo, al quale spesso l’imprenditore si rivolge.

Altrimenti, si corre il rischio di inseguire i fantasmi del passato. La sentenza della Corte Costituzionale che nel 2022 ha dichiarato l’illegittimità dell’ergastolo ostativo – ossia della norma dell’ordinamento penitenziario che impediva al detenuto soggetto al regime carcerario dell’art. 41 bis di usufruire dei benefici previsti in generale per gli altri detenuti – costituisce, in questo senso, un monito: un invito ad applicare in modo ragionevole gli strumenti della legislazione antimafia. Del resto, il principio di proporzionalità (la ragionevolezza, appunto) è, sul piano del metodo, la prima regola costituzionale che un organo dello Stato (del potere legislativo come di quello esecutivo) deve osservare, rifuggendo da soluzioni semplicistiche dettate, ad esempio, dal passato della persona (la c.d. «colpa d’autore» del diritto penale), magari condannato anche per reati associativi commessi però alcuni decenni prima e per ciò solo ritenuto anche nell’attualità contiguo o peggio organico ad ambienti criminali. La Costituzione (art. 27) vuole che la pena assolva anche alla funzione di rieducare il condannato. Ma, per assolvere a tale funzione, al condannato deve pur essere data una chance per dimostrare di non essere più quello di prima.

In definitiva, non sembrano avere perso di attualità (ed anzi, come si addice ai veri intellettuali, sono tanto più vere quanto più tempo ci separa da loro) le parole di Leonardo Sciascia: «La mafia si combatte non con la tensione delle sirene, dei cortei, la mafia si combatte con il diritto. Il giudice deve essere specializzato solo nel fare il giudice, nella scienza della legge e nella coscienza di amministrarla» (1983). Un invito che, per le stesse ragioni, vale anche per l’autorità amministrativa. Si tratta, appunto, di distinguere il loglio dal grano, col duplice scopo di non fare un torto al grano – ingiustamente accomunato al loglio – e di non fare un favore al loglio – che, facendosi scudo del grano, si pavoneggia e magari sulla scia di un certo garantismo peloso si accredita come vittima del sistema. Semplificando: da un lato i poteri di uno Stato debole (che grossolonamente usa la ruspa), dall’altro i doveri di uno Stato forte (che agisce con la precisione del filo a piombo).

L’obiettivo di relegare le interdittive antimafia ai soli casi in cui appaiono indispensabili a salvaguardare l’ordine pubblico è confermato, di recente (2021), dall’introduzione nel codice dell’antimafia della c.d. prevenzione collaborativa, ossia della possibilità che il Prefetto, accertata la natura occasionale del tentativo di condizionamento, sottoponga temporaneamente (6 – 12 mesi) l’impresa a forme di controllo esterno, tipicamente di tipo informativo, che non estromettono l’imprenditore dalla titolarità dell’azienda e ne assicurano la necessaria continuità e che, soprattutto, non espellono dal circuito legale l’impresa con gli effetti irreversibili propri dell’interdittiva.

 

*Riccardo Rotigliano è avvocato amministrativista

 

La rubrica «La legge e noi» è a cura di Nicola Piazza, avvocato, già professore di diritto commerciale nell’Università di Palermo

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