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La difficile giornata di Tamberi fra sangue e lacrime: stavolta niente miracolo

Altra colica nella notte, poi la corsa in ospedale. Alla fine gareggia, ma non riesce a staccare e naufraga all’undicesimo posto mentre il Team Italia eguaglia il record di Tokyo. L'altro azzurro, Sottile, sfiora il podio

Dai sogni d’oro a un incubo di dimensione olimpica. Gianmarco Tamberi esce dalla sua seconda finale dei Giochi passando attraverso ospedali e flebo, sempre col piglio da animale da palcoscenico. Stavolta però ferito, e non solo perché chiude undicesimo su dodici. È il giorno in cui, con i bronzi di ritmica e pentathlon e l’argento del ciclismo su pista, l’Italia eguaglia il record di Parigi: 39 medaglie già stasera, 40 con quella certa del volley donne di domani, e poi un oro in più nel bilancio.

La festa di Gimbo invece finisce, anzi neppure comincia. Sei salti, uno solo oltre l’asticella a 2.22, poi l’eliminazione a 2.27. All’alba di Parigi, era di fatto già svanita la sua voglia matta di bissare la vittoria di Tokyo tre anni fa ed entrare nella storia come l’unico altista a realizzare la doppietta. Non lo fermano gli avversari, ma una sfortuna che rasenta la maledizione (ed era anche portabandiera...): alle 5 una nuova colica lo aveva costretto a maledire la sua sorte, lui che nel 2016 doveva atterrare a Rio da favorito e si ruppe la caviglia in un impavido tentativo di record italiano. La rivincita se l’era presa in Giappone, in coppia con l’amico Mutaz Barshim, l’atleta del famoso oro condiviso. Stavolta mentre il qatarino saltava per il podio (abdica pure lui, solo bronzo, oro al neozelandese Hamish Kerr e argento all'americano Shelby McEwen, tre continenti sul podio) e l’altro azzurro Stefano Sottile cullava sogni di gloria (quarto alla fine), Tamberi piangeva a dirotto abbracciato alla moglie Chiara a bordo curva. A coccolarlo decine di amici in un lunghissimo rito catartico.

Quello, in verità, Gimbo avrebbe preferito viverlo prima, per farla finita con i calcoli. A inizio settimana, quando il primo improvviso malore lo aveva messo ko rinviandone l’arrivo a Parigi; o perlomeno stamattina al secondo, sfortunatissimo attacco che ha dato vita a un thrilling da non credere, alimentato dai post Instagram di Gimbo: gareggia o non gareggia?

Dopo la qualificazione strappata con i denti mercoledì, l’azzurro aveva avuto tre giorni di riposo e si diceva «carico a bestia». Tutto via social, il suo canale di comunicazione con la platea virtuale, in attesa di quella reale. E invece stamane la sveglia dolorosa e l’inizio di una sorta di T-day: una telecronaca minuto per minuto via social in avvicinamento alla finale dell’alto. A cavallo tra psicodramma e sceneggiatura cinematografica (a tratti alla Tarantino), la corsa di Gimbo verso lo Stade de France è stata un viaggio del dolore punteggiato di disperazione («è tutto finito...»), tumulti («sarò in pedana? sì, ma non so come ce la farò»), annunci simil-splatter («ho vomitato due volte sangue, mi hanno portato in ambulanza in ospedale: sto perdendo l’ultima speranza») e infine il parere medico che escludeva «assoluti impedimenti». Fino al colpo di teatro. «Ci sarò», ancora una volta su Instagram.

Lo sgomento in tanti del Team Italia è stato palese, ci fosse anche qui una qualsiasi commentatrice tv al veleno ripeterebbe la frase infelice alla Pilato («ci fa o ci è?»). E invece l’unica domanda legittima è: come si fa a gareggiare in una finale olimpica 4 ore dopo essere uscito dall’ospedale? Gimbo ha abituato alle sorprese spettacolari, come con le molle tirate fuori dalla scarpe all’oro europeo di Roma, ma con le Olimpiadi non si gioca.

La risposta, dalla gara: Gimbo ci ha provato, come un Beckenbauer dalla spalla fasciata o uno Jury Chechi che volteggia agli anelli col tendine del bicipite ricucito, Ma ha faticato vistosamente, non riuscendo mai a «staccare». Troppo dolore nella gambe magrissime per una dieta estrema, forse anche troppo. A posteriori, penserà qualcuno, è stato un errore anche dire di no agli antibiotici. A Tamberi è restato l’entrata-show nello stadio alle 19, quattordici ore dopo la sveglia drammatica, con le mani battute sul petto come un orango per saltare alto. E gli applausi ricevuti dallo stadio e regalati agli avversari rimasti in gara, con lui rimasto spettatore in pedana. Dopo aver perso la fede nella profondità della Senna, stasera era davvero impossibile spiccare il volo verso il cielo.

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