Ayrton Senna, una vita dedicata alla vittoria e alla velocità: trent'anni fa il suo sogno si spezzò contro un muretto del Tamburello
Il mondo è andato più veloce di Ayrton. Anche se sembrava impossibile. Perché niente poteva essere più rapido di lui, neanche dopo che tutto si è fermato alle 14,17 di trent’anni fa contro un muretto del Tamburello. Ayrton correva. Questo era il verbo della sua vita. Che declinava accanto alla parola di Dio («Nessuno potrà separarmi dal suo amore») e a un mix di sentimenti che faticava a tenere nascosti dentro di sé e che ce lo rendevano amico, vicino, uguale a chiunque di noi a patto che non indossasse il casco. Ayrton vinceva, soprattutto. Perché alla vittoria aveva dedicato la vita. «Tutti vogliono vincere ma c’è solo un numero uno», era il mantra recitato ogni volta che qualcuno gli chiedeva perché. Perché correre a 300 all’ora, superare dove sembra impossibile, attraversare curve invase dalla pioggia e scontrarsi con piloti che volevano solo abbattere il tuo regno? Perché vincere era la consacrazione dell’uomo. L’esaltazione del suo essere conscio delle enormi capacità. Perché tutto ciò va dimostrato e riconosciuto dai più, altrimenti è una intenzione dell’anima, solo quello, poco più di un sogno. E invece Ayrton i sogni li faceva avverare. Anche se avevano un prezzo, a vote salato. Voleva essere un pilota e per questo lasciò San Paolo e la vita agile per la fredda Inghilterra. Per la verità prima fece tappa in Italia, dove imparò la nostra lingua e riconobbe anche un modo di essere che era nel suo Dna di famiglia (aveva lontane origini siciliane e toscane). Sui sogni di Ayrton viaggiava una intera generazione. Che cavalcava quella spensierata sensazione di potercela fare solo perché lo si vuole con tanta forza. Era la gioventù di chi ha attraversato gli anni Ottanta e pensava che nei Novanta avrebbe avuto la propria consacrazione, come Ayrton. Ogni domenica, ogni volta che c’era una sfida. Ma Senna faticava per essere tutto questo. Si portava dietro un buio interiore, dubbi mai risolti, paure che a volte sovrastavano speranze tangibili. Si portava dietro quello che ognuno si porta dietro in ogni momento della vita. E per questo fu amato. Preferito a Prost, troppo furbo e politico. Apprezzato più di Piquet, troppo guascone in un mondo che cominciava a richiedere concentrazione. Fu paragonato a Lauda e Clark e forse questo era l’unica debolezza accettabile nel mondo che lo circondava. Senna era più forte di tutto. Della pioggia di Montecarlo ’84 e Donington ’93. Simbolo delle bufere che colpiscono tutti nella vita e di fronte alle quali quelle vittorie avevano indicato una via d’uscita, di resistenza, di superiorità valida per tutti. Senna era più bravo di tutti. Nell’affrontare le curve, nel controllare la macchina, nel prevenire gli avversari. Come dovrebbe essere ognuno di noi nelle difficoltà di tutti i giorni. Aveva una sensibilità alla guida che lo portava a essere in simbiosi con la macchina, a sentirsene parte e a vederla come un prolungamento del suo spirito. Per questo nulla poteva fermarlo. Nemmeno quella che lui chiamava politica. Quelle manovre di palazzo, quei giochi da business della F1 che sempre più lo stavano allontanando dal piacere puro di duellare e vincere. È quello che capitava a ognuno di noi che usciva dalla spensieratezza ed entrava nel mondo competitivo del lavoro. Per questo ci commuovevamo quando diceva di ricordare con emozione solo i duelli in kart con Terry Fullerton, lo sfidante ragazzino, l’unico che riuscì a negargli la gioia di essere il numero 1. Era amato dalle donne, con cui ha avuto rapporti controversi e invidiati. Soffriva la concorrenza di giovani disposti a tutto per batterlo, come Michael Schumacher. Ma finché è stato in pista è rimasto davanti a tutti. Anche a Imola, 30 anni fa, aveva fatto la pole position e poi era in testa. Fino al settimo giro, fino alle 14,17. Fino al Tamburello. Lì, dove una intera generazione è rimasta orfana del suo mito imbattibile e sofferente. Che mosse il casco per un’ultima volta, mentre era fermo nella carcassa della macchina. Venne da pensare a tutti che ce l’aveva fatta anche questa volta, che aveva dimostrato di nuovo di essere il più forte. Invece si era fermato, aveva smesso di correre. Il tempo da quel momento è stato più veloce di lui. Una cosa sola non è riuscito a mutare in 30 anni, la nostalgia che provocano quel casco giallo, quella voce calda, quegli occhi che attraversavano la visiera. Saudade è una parola per descrivere tutto questo. E da 30 anni sappiamo cos’è davvero.