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Vent'anni senza Pantani, i dubbi e le inchieste: «Il Pirata morì solo»

I testimoni, le parole di Vallanzasca, si è sempre cercato di scavare a fondo ma non c'è stata nessuna prova a sostegno della tesi dell'omicidio

Una immagine d'archivio di Marco Pantani durante una tappa del Tour de France 1998. ANSA/PASCAL PAVANI

Difficile, forse impossibile, accettare che uno degli sportivi italiani più emozionanti e amati di sempre possa essere morto in solitudine, nella sera degli innamorati, in una stanza di un residence di Rimini e dopo aver assunto droga fino ad autodistruggersi. Vent’anni fa, il 14 febbraio 2004, finiva la vita di Marco Pantani e iniziava la ricerca di un responsabile per tutto quello che era successo negli ultimi giorni e negli ultimi anni al Pirata delle salite, trasformatosi da leggenda a uomo fragile, abbandonato da tutti, incapace di frenare la sua ultima discesa.

«Non so se ci sarà un altro giorno per me», aveva detto il campione di Cesenatico, rivolgendosi in romagnolo a un ospite del residence Le Rose, dove alloggiava. Quando l’allora dirigente della squadra mobile di Rimini Sabato Riccio, primo funzionario di polizia accorso sul posto, entrò nella camera, verso le 21, trovò tutto a soqquadro, il cadavere in terra, con solo i jeans addosso, e poi psicofarmaci e residui di stupefacenti, lettere incomprensibili che lasciavano immaginare cosa fosse successo. Pantani, stabilì il medico legale, morì per una intossicazione acuta di droga, con conseguente edema polmonare e cerebrale. Le inchieste hanno detto che la stanza era chiusa dall’interno, il campione di Cesenatico era solo. La morte, è stato specificato ulteriormente in seguito, è arrivata per un’azione prevalente di psicofarmaci, così da far pensare a una condotta suicida, prevalentemente, oppure un’overdose accidentale. È stata sempre esclusa l’ipotesi di un’assunzione sotto costrizione.

Le prime indagini furono rapide, c’era un Paese intero che voleva capire. Furono presto individuati coloro che avevano ceduto a Pantani le dosi letali. Fabio Miradossa patteggiò quattro anni e dieci mesi, tre anni e dieci mesi Ciro Veneruso, per spaccio e morte come conseguenza di altro reato. Il primo avrebbe consegnato al Pirata la droga, l’altro l’avrebbe procurata e un terzo uomo venne assolto in Cassazione.

Ma si è continuato a scavare a fondo, perché la famiglia non si è mai accontentata. L’inchiesta è stata riaperta e archiviata, una seconda volta, tra la fine del 2015 e l’inizio 2016. Poi ancora, riaperta tre anni fa, ma nuovamente non sono stati trovati elementi nuovi, nonostante le decine di persone ascoltate, ricostruzioni giornalistiche e cinematografiche su scenari alternativi, su gente che diceva di aver visto altre persone insieme a Pantani. Ma che quando è stata ascoltata non ha chiarito: un tassista che portò davanti al residence due cubiste; un investigatore privato, poi deceduto, che millantava di sapere cose mai dette; gli amici, le donne, anche quelle di una sola sera, il personale di servizio dei locali frequentati da Pantani, insomma tutti quelli che avevano potuto avere contatti con lui nei giorni precedenti al 14 febbraio 2004. Nessuna nuova pista è emersa. Nessuno, ha ribadito la Procura di Rimini, lo ha ucciso.

Una strada senza uscita anche la testimonianza di Miradossa, il pusher. Alla commissione antimafia disse: «Marco è stato ucciso, l’ho conosciuto 5-6 mesi prima che morisse e di certo non mi è sembrata una persona che si voleva uccidere. Era perennemente alla ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, ha sempre detto che non si era dopato». Dichiarazioni però non confermate agli inquirenti riminesi che archivieranno anche questa volta. E questa volta l’impressione è che la famiglia non si opporrà.

Campiglio è l’altro snodo: qui il 5 giugno 1999 Pantani venne escluso dal Giro d’Italia per l’ematocrito alto e fu l’inizio del tramonto. Prima a Trento e poi a Forlì si è indagato per capire, anche qui su sollecitazione dei familiari, se dietro l’esclusione ci fosse stato un complotto ordito dalla criminalità organizzata, che contro di lui aveva scommesso: secondo questa teoria qualcuno aveva alterato le analisi del sangue. E fu un personaggio come Renato Vallanzasca a raccontare di essere stato avvicinato nel 1999 in carcere da un camorrista che gli aveva detto di non scommettere sul Pirata perché quel Giro «non lo avrebbe finito». Ma nessun riscontro, anche su questo, è mai stato trovato.

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