Una vita a rincorrere, superare e battere tutti. Una vita sempre di corsa, sempre con l’occhio al cronometro, sempre più forte. Una vita, nella quale, però, solo un avversario si è dimostrato più duro e scorbutico: l’epilessia che lo tormenta ormai da quasi 31 anni. Dal quel maledetto 26 agosto del 1991, quando sembrava poter vincere la medaglia d’oro ai mondiali di Tokyo, per poi ritrovarsi, senza neanche sapere come, senza neanche sapere perché, ultimo della fila, quando viaggiava su ritmi da primato del mondo. Totò Antibo oggi è un uomo che, a 60 anni (è nato il 7 febbraio 1962) continua a lottare, nonostante la difficile operazione chirurgica del 5 febbraio dell’anno scorso, quando a Catanzaro andò sotto i ferri per farsi impiantare nell’organismo un dispositivo in grado di far abbassare considerevolmente il numero degli attacchi epilettici di cui soffre ormai dal giorno di quella gara nipponica. La sua vita si svolge sempre ad Altofonte, piccolo centro alle porte di Palermo, del quale è originario e il cui nome ha portato gloriosamente in giro per mondo. «La mia medaglia più bella - dice l’ex mezzofondista all’Italpress - quella di avere girato il mondo e di avere rappresentato il mio piccolo paese di ottomila abitanti in giro per il mondo».
La vittoria più bella a Spalato nel '90
Qualche giorno fa il campione è stato premiato al teatro Politeama di Palermo, in occasione della festa del centenario dell’atletica siciliana. E chi, sennò, meglio di lui, poteva rappresentare la storia dell’atletica dell’Isola? E’ stata un’apparizione fugace, prima di andar via e tornare a casa. Il tempo di ricevere l’ennesima standing ovation, di essere travolto, ancora una volta, dall’affetto della gente, che di cessare non vuol saperne, forse per quel suo modo «garibaldino» di correre, sempre con gli strappi che accendevano il pubblico. Un legame con la gente che non si affievolisce benché siano passati trent’anni dalle sue imprese leggendarie. La più bella? «Certamente quella di Spalato, agli Europei del ‘90 - racconta Totò - perché dopo aver vinto i diecimila, corsi la batteria dei cinquemila. E lì poi arrivò il capolavoro: l’inglese mi fece cadere ad inizio gara, ma io riuscii a rialzarmi, rincorrere tutti, che nel frattempo volavano per staccarmi, raggiungerli e poi vincere in volata. Fu una doppietta storica. Credo che ci sia riuscito solo Zatopek negli anni ‘50». La verità è che in quegli anni Totò Antibo era il più forte del mondo: tre stagioni senza perdere mai, Coppa del Mondo compresa, se si fa eccezione per la finale olimpica di Seoul ‘88, quando la medaglia d’oro se la mise al collo a sorpresa il marocchino Brahim Boutayeb, uno che poi veniva regolarmente battuto da Totò. «Mi avevano detto di fare la corsa sugli etiopi e i keniani - racconta - e così nessuno diede credito alla sua azione che gli consentì di arrivare fino alla fine. L’ho ammirato tanto per questo, perché è riuscito a prendermi una medaglia che forse io meritavo».
Nessun rimpianto, nemmeno per i record volati via
Oggi, a un passo dai 60 anni, Totò Antibo guarda al suo passato senza rimpianti: nemmeno quello di aver perso i record italiani di cinque e diecimila metri. Glieli ha portati via di recente Yeman Crippa: «E’ bravissimo - sottolinea l’ex azzurro - ma adesso uno che corre i diecimila in 27’ e i cinquemila in 13’ deve dimostrare nei meeting e negli appuntamenti importanti di valere i tempi che ha, conquistando medaglie». E fra i rimpianti di Antibo non c’è nemmeno quello di aver lasciato le Fiamme Oro, che gli garantivano un posto da poliziotto, utile anche dopo aver smesso di correre. «E invece mi sembrò giusto ritornare nel Cus Palermo, la società che mi aveva cresciuto e che meritava di poter tesserare quello che in quegli anni era il numero uno al mondo. Volevo fare questo omaggio alla società dopo tutto quello che aveva fatto per me. Credo che pochi altri lo avrebbero fatto. Forse nessuno».
In attesa che arrivino dagli Stati Uniti dei farmaci in grado di stimolare il suo apparato cardiaco (probabilmente ad aprile), Totò si congeda con le dediche. «Certamente alla mia famiglia, che mi supporta e mi sta vicino, ma mi sia consentito di dedicare la mia carriera a Gaspare Polizzi. Per me non è stato solo un allenatore, ma un secondo padre. Per seguirmi lasciava tutto: sua moglie e i suoi cinque figli. A lui devo tutto e a lui va adesso il mio ringraziamento».
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