C’è solo un uomo che può dire senza timore di essere smentito di aver battuto almeno una volta la morte. Solo un pilota può dire di averla vista da vicino, essere stato trascinato da lei chissà dove per un po’ ed essere riuscito a tornare indietro, a riprendersi la vita. E’ sfuggito per 43 anni alla morte, Niki Lauda. E raccontarlo adesso, mentre il mondo ne parla già al passato, fa di questo austriaco un eroe epico, primitivo. Un cavaliere senza mantello che si è esibito in un’epoca in cui i supereroi erano al massimo nei fumetti, altro che Avengers. Intorno a Lauda ogni leggenda è vera. A cominciare da quelle che circondano il rogo del Nurburgring, primo agosto 1976. Una stagione che filava dritta verso un titolo mondiale e che invece in Germania virò verso la morte. In quell’incidente, si vede a stento dalle immagini, Niki perse il casco e rimase in preda alle fiamme col volto scoperto. Arturo Merzario, che letteralmente lo salvò, raccontò anni dopo che nei minuti successivi, steso sull’erba in attesa di essere portato in ospedale, Lauda gli chiese subito com’era il suo volto. E se qualcuno stenta a credere che Lauda potesse avere in quei momenti la forza e la lucidità di pensare al suo viso, vada a rileggere ciò che lui stesso raccontò di quei giorni in ospedale sospeso fra la vita e la morte. Mentre i medici annunciavano alla Ferrari e alla famiglia che non c’era nessuna speranza, che le lesioni ai polmoni erano più profonde di quelle al volto, lui pensava: “Non addormentarti, Niki, rischi di non svegliarti più”. C’era l’Italia intera a pregare per lui. Un’Italia che negli anni Settanta sperava di crescere, viaggiare come lui, veloce e più forte di tutti su una Ferrari, verso il progresso e il benessere. Era un’Italia che scopriva la tv dietro a ogni cosa: notizie che filtravano dalla Germania, dall’Austria, da Maranello. E tutti lì, incollati ai Tg e intenti a spulciare i giornali per sapere se ce l’avrebbe fatta. Ecco perché gli italiani a questo austriaco un po’ scorbutico si affezionarono. Perché 42 giorni dopo il rogo del Nurburgring si presentò a Monza per correre il Gran premio di Formula 1. Chiunque si sarebbe abbandonato a un riposo dorato. Lui no, era troppo arrabbiato con Ferrari che aveva già messo sotto contratto il suo sostituto. E allora corse, di nuovo a 300 all’ora, anche se non riusciva a indossare il casco perché la pressione gli riapriva le ferite. Anche se le gocce di sangue gli solcavano il volto sulla linea di partenza a Monza. E anche prima che il mondo capisse che era riuscito a tornare a essere un pilota lui dimostrò che era già un uomo più forte di prima, uno che non aveva problemi a svelare in pubblico quello che era diventato. Proprio in quei giorni Lauda andò in un ristorante a Monza e – racconta Piero Ferrari – i camerieri vedendolo gli proposero di mangiare in un’ala appartata. Lui rispose: “Mettetemi davanti all’ingresso, non mi dispiace che tutti vedano che faccia ho adesso”. Questo era Niki Lauda. Uno che era scampato alla morte e che non ebbe vergogna di ritirarsi per paura al Fuji sotto il diluvio alla fin di quello stesso 1976 regalando il titolo ad Hunt. Forghieri gli propose di inventare una scusa, di raccontare che la Ferrari si era rotta. Lui disse: “Non ho problemi a dire la verità. Racconta che ho avuto paura”. La vita gli avrebbe dato ragione quasi sempre. Alla fine del ’77 si prese un altro mondiale, il secondo. E si tolse lo sfizio di andare da Ferrari e dirgli in faccia che non lo sopportava più. La lite fu furibonda, l’addio traumatico. Lauda disse: “Vedremo fra due anni dove sarò io e dove sarà la Ferrari”. Nel ’79 la rossa fu campione del mondo e Lauda si ritirò (salvo tornare 2 anni dopo per vincere un altro mondiale con la McLaren). Raccontano che era attaccato ai soldi, che quando firmò il primo contratto con Ferrari controllò prima della riunione il cambio fra lira e scellino austriaco per capire se poteva chiedere di più. Aveva i difetti che ogni uomo ha. Tranne uno: diceva solo quello che pensava. Un uomo che aveva sconfitto la morte non poteva cedere alla diplomazia. Se una cosa non gli piaceva, diceva: “E’ molto stupido”. Una frase che se chiudiamo gli occhi riusciamo ancora a sentire, pronunciata al via dei gran premi durante le immancabili interviste o per commentare una evoluzione di questo sport che è troppo diverso da quello per cui lui aveva rischiato la vita. Volendo cedere al romanticismo, si può anche dire che avesse battuto la morte almeno altre due volte dopo quel 1976: ebbe due trapianti di reni, conseguenza anche questa del rogo del Nurburgring che gli danneggiò i suoi, e l’estate scorsa fu costretto pure a un trapianto di polmoni. Così, in attesa dell’ennesima resurrezione, era sparito dalle piste. Il mondo sapeva che era di nuovo in lotta e si attendeva di rivederlo con le cicatrici invecchiate e il solito cappellino rosso. E invece no, anche Lauda alla fine ha perso di fronte alla morte. Però a modo suo, 43 anni dopo il primo duello. E ammetterlo procura una fitta dritta al petto perché è un altro scatto delle lancette del tempo che si porta dietro una generazione intera e un modo di vivere.