“La sfortuna non esiste, esiste solo l’incapacità dell’uomo di fare o prevedere”: forse è in questa frase l’eredità che Enzo Ferrari ha lasciato. E chi non lo ha mai visto, chi è nato dopo quel 14 agosto del 1988, forse dovrebbe saperne molto di più di un uomo che riusciva con poche parole a dire così tante cose. In realtà questa frase, da sempre citata quando le cose a Maranello non vanno, fu pronunciata (e scritta nelle sue memorie) quando il Drake capì che per il figlio Dino non ci sarebbe stato più nulla da fare. Era il 1956 e raccontava, Ferrari, di essere salito su una collina per passeggiare col figlio, malato di distrofia muscolare, ascoltando alla radio la cronaca di una corsa. Le macchine col cavallino stavano vincendo e lui, entusiasta, senza accorgersene aveva accelerato al punto che il figlio non riusciva più a seguirlo. Quando si voltò e lo vide capì che i suoi sforzi per curarlo erano inutili. Ma non pensò mai che quella contro la distrofia sarebbe stata una battaglia persa in partenza. Era sicuro che un giorno l’uomo avrebbe curato quella malattia, e che suo figlio non stava morendo per sfortuna ma perché in quel momento la scienza non era ancora in grado di aiutarlo. Mai credere alla sfortuna. E mai assecondare le critiche. Odiava “gli ingegneri del lunedì”, quelli che, a corsa già finita sapevano sempre cosa sarebbe stato giusto fare. Troppo facile per uno che nella vita ha sempre saputo cosa fare prima che fosse lunedì. Racconta la leggenda che la prima volta che sognò di essere Ferrari era il 1909, lui aveva 11 anni. Vide una corsa automobilistica, il Record del miglio, vinta da Da Zara. Tutto nacque da lì. Anche se la prima volta che disse di voler essere un pilota fu l’anno dopo: lesse di un italiano trapiantato in America, Raffaele De Palma, che aveva vinto a Indianapolis. E una sera di agosto confidò a un amico: “Voglio diventare più bravo di lui”. Tutto nasce da lì. Anche se oggi, oltre cento anni dopo, sembra facile e naturale. Ferrari scalò montagne: per pagarsi le prime corse vendette la casa, quella di Modena in cui oggi c’è il Museo Casa Ferrari. Andò in guerra, la Grande Guerra, e tornò senza nulla in mano. Per questo motivo amava "Addio alle armi" di Hemingway. E c’è un’altra leggenda su quella fase della sua vita: tornato a casa, sua madre gli procurò un colloquio con Diego Soria, allora uno dei dirigenti della Fiat. Lui andò a Torino carico di speranze e convinto che l’Italia gli dovesse qualcosa per i sacrifici fatti in guerra. Ma Soria lo liquidò: “Non siamo così grandi da poter risolvere i guai di tutti i disoccupati d’Italia”. Lui stesso raccontò che all’uscita si sedette su una panchina al parco del Valentino e pianse. Molti anni dopo stava parlando con Michele Alboreto che gli raccontava della canzone di Bruce Springsteen "Born in the Usa" che parlava proprio di un dialogo fra un imprenditore e un reduce del Vietnam. Allora Ferrari disse ad Alboreto: “Questo cantante non si è inventato niente”. Anche se la sua canzone preferita era "Al di là", un testo di Mogol che Luciano Tajoli portò al trionfo a Sanremo nel 1961. Ferrari non si arrese mai, ed è questa un’altra eredità che ci ha lasciato. La forza di andare avanti, sempre. Nel 1947, all’indomani della seconda guerra, in una Italia in macerie e quando lui aveva 50 anni (mentre l’aspettativa di vita era di 60/65) decise di scommettere tutto di nuovo per creare la sua fabbrica. Non più macchine Alfa col simbolo del cavallino ma macchine costruite da lui. Tutto nasce da lì. Da un uomo visionario che non vedeva ostacoli mai. Anche se era pieno di contraddizioni. Un uomo capace di vedere agli inizi del Novecento il futuro nel motore e nelle quattro ruote. Un uomo che amava rincorrere la modernità ma che non prendeva l’ascensore (perché vi rimase bloccato a Palermo per ore prima di una Targa Florio) e non ha mai preso un aereo. Ferrari aveva tanti amici soprattutto all’inizio della sua avventura. Ma era diffidente verso i sentimenti. A suo figlio Piero disse: “Non ti affezionare mai ai piloti. Perché prima o poi ci lasciano, vanno in altre squadre o sono vittime di incidenti”. Eppure lui si affezionò a tanti: Tazio Nuvolari, prima di ogni altro, e Gilles Villeneuve, l’ultimo per cui pianse. Costruiva macchine che era il massimo della tecnologia e dell’aerodinamica per andare sempre più veloce, anche nelle strade di tutti i giorni. Ma le sue preferite erano le 2+2. Amava anche scrivere, da piccolo fu perfino tentato di provare a diventare giornalista e si vantava di aver lavorato per la Gazzetta dello sport: mostrava sempre un articolo a sua firma di un Modena-Inter che ricordava solo lui. Da scrittore mise insieme le sue "Gioie terribili". Quelle che oggi, a distanza di 30 anni, ci aiutano a comprendere che le leggende intorno a lui sono invece il racconto di un cammino verso la realizzazione di ogni obiettivo. Era sicuro che il successo si raggiunge quando si hanno le capacità e la convinzione di potercela fare. Senza scorciatoie, solo perché si è migliori. Ed è questa l’eredità a 30 anni da quel 14 agosto 1988, quando si prese beffa del mondo un’ultima volta. Fece in modo che la notizia della sua morte fosse data a funerale avvenuto. Odiava retorica e ipocrisia, e se ne andò in silenzio mentre l’Italia era al mare.