MILANO. "Mi scuso con gli italiani, ma non mi sono dimesso: dovremo fare molte valutazioni". L'unico contropiede azzurro riuscito nella notte più buia della nazionale è quello di Gian Piero Ventura, che si prende le responsabilità tecniche del fallimento ma non lascia il suo incarico.
Dopo 90' di cuore e poco più, la lunga notte del calcio italiano si consuma nello spogliatoio di San Siro. "Ora servono 48 ore di riflessione", filtra dalla Federcalcio, una pausa che va da Tavecchio in giù, per tutta la federcalcio. In attesa della bagarre che scoppierà attorno all'eliminazione dell'Italia dal Mondiale, 59 anni dopo l'unico precedente.
"Troppi stranieri, ecco il risultato", dice subito Salvini, rispolverando le polemiche sugli oriundi del fallimento per il Mondiale '58. Se gli sviluppi saranno gli stessi si vedrà, sotto processo è tutto il calcio italiano. Ma per ora la scelta è quella di Ventura.
"Non mi sono dimesso perché non ho parlato con Tavecchio: vedremo, ci sono delle valutazioni da fare", dice ben oltre la mezzanotte. Motivazioni economiche certo, ma a sentire il ct non solo. "Dirò quel che penso e quel che devo dire, ascolterò ed accetterò con serenità le decisioni prese. Ma ora non posso parlare di qualcosa che non c'è", dice spiazzando tutti quanti si aspettavano un passo indietro.
"Sono nel calcio da tanti anni, questa eliminazione ha una risonanza enorme - dice -. Le responsabilità le sento. Affrontare con la Figc il tema di una rifondazione? E' una possibilità, ma devo dire prima tutto quelle che sono le mie considerazioni. Ho fatto tardi solo perché ho voluto salutare a uno a uno campioni che ho avuto il piacere di allenare, ed altri che spero lo diventino", aggiunge, parlando come se di fatto fosse ex ct.
"Sul mancato feeling con la squadra, la partita di stasera dimostra il contrario: ci sarebbero cose da dire, ma lasciamo perdere...". Ora lo scenario è una pausa per valutare a freddo situazione e reazioni, ma se non arriveranno le dimissioni resta l'esonero.
Ventura ha sette mesi di un contratto da 1,5 milioni l'anno, il prolungamento al 2020 era legato alla presenza al mondiale. Ma la bufera investirà tutto il calcio, non solo Ventura, che stasera è il principale accusato. Si è dimesso, non si è dimesso, le voci si sono rincorse a lungo nella sala stampa di San Siro, dopo che Buffon era scoppiato a piangere a dirotto in campo annunciando che la sua ventennale storia azzurra finisce qui, con una "fallimento che è della nazionale, del calcio ed anche sociale".
Ventura invece non parla ai microfoni Rai, va diritto nello spogliatoio dove il saluto alla squadra e il vertice con i dirigenti presenti al completo allo stadio, Tavecchio e il dg Uva in testa. L'attesa per l'annuncio si allunga, ma intanto emerge un particolare illuminante, pescato dalle telecamere Rai e subito diventato virale sui sociale, gli stessi che hanno ironizzato sul fine corsa di Ventura dal fischio finale di Italia-Svezia, facendo eco ai fischi iniziali dei 70 mila per il ct: in panchina, De Rossi, simbolo dell'attaccamento all'azzurro, ha litigato con il preparatore che gli chiedeva di scaldarsi per i cambi.
"Ma che c... fate scaldare Insigne, qui bisogna vincere non pareggiare", urla il centrocampista, spesso accusato dai suoi tifosi di club di giocare anche da infortunato in azzurro mettendo a rischio le sue presenze in campionato.
"Non ce l'avevo con il preparatore, sto da venti anni in azzurro e vorrei sempre giocare..." dice, e sembra un riferimento alla scelta di Ventura che lo ha escluso dopo la prova di Stoccolma: la prestazione di Jorginho dice che la scelta ci stava, ma la frattura tra il ct e i veterani (a Torino, a ottobre, la riunione per far cambiare rotta tattica all'allenatore) è evidente.
"Mi scuso con il preparatore se ho dato un'indicazione tattica che non mi spettava - l'amara conclusione di De Rossi - ma se mi avessero detto che dovevo entrare, sarei entrato...".
Invece Buffon, dopo aver annunciato il suo addio, dice che con lui lasceranno anche Barzagli, Chiellini e De Rossi, va in frantumi quel che rimane della generazione di veterani (e tre di loro sono i reduci di Berlino 2006). Un'era azzurra è finita, ma il futuro è un'incognita.
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