MILANO. Grande calciatore, il primo italiano ad alzare trionfalmente nel 1963 la Coppa dei Campioni, Cesare Maldini ha conosciuto però da allenatore una popolarità planetaria nel mondo del calcio: perchè le sue qualità umane erano superiori a quelle - pur ragguardevoli - tecniche. Per questo ora che è morto, lo piangono dappertutto e non solo al Milan, che è stata casa sua nel vero senso della parola: tanto è vero che dopo l'epopea di suo figlio Paolo, c'è ancora un Maldini in rossonero: suo nipote Christian gioca, difensore, nella primavera.
Segno che ha seminato bene, questo triestino giramondo: educando familiari e giocatori, e spesso le due categorie coincidevano. Ha vinto in campo, quattro scudetti oltre alla famosa Coppa dei Campioni del 1963, e in panchina: tre europei consecutivi negli anni Novanta alla guida dell'Under 21 azzurra, un record.
Ha insegnato calcio, da italianista convinto, distribuito battute e raccolto simpatia come testimonia anche il successo della sua imitazione fatta da Teo Teocoli, e pazienza se alle "maldinate" di quando giocava (svarioni difensivi figli di una eccessiva sicurezza di gioco) si aggiunsero con il tempo quelle dialettiche: lui era così, in senso buono davvero un allenatore pane e salame, in tempi in cui la polemica vegana era rappresentata dai puristi della "zona".
E' stato anche capace di inventarsi una nuova vita calcistica a 70 anni, diventando il ct del Paraguay e guidandolo ai Mondiali del 2002 fino alla sfida degli ottavi di finale persa contro la Germania. Quattro anni prima però aveva sfiorato il capolavoro da commissario tecnico dell'Italia, lui che era stato il vice di Bearzot a Spagna 1982, rilevando in corsa Sacchi nel girone eliminatorio, portando in rimonta sull'Inghilterra gli azzurri al mondiale e finendo eliminato nei quarti di finale ai rigori dalla Francia futura vincitrice. Aveva utilizzato Baggio in staffetta con Del Piero ed era uscito, come aveva sottolineato, "per un tanto così".
Gli occhi lucidi di Maldini senior sono una delle immagini forti di quella sfida, come pure la sua signorilità nell'accettare la sconfitta e un esonero immeritato. Ma la vita gli avrebbe riservato altre soddisfazioni: esattamente quaranta anni dopo il suo trionfo in Coppa Campioni suo figlio Paolo, anche lui da capitano, alzava il trofeo dopo la vittoria ai rigori nella finale tutta italiana contro la Juve a Manchester. Segno del destino e simbolica cinghia di trasmissione tra generazioni già in vista in nazionale, quando uno da ct e l'altro con la maglia numero 3 davano il senso di continuità di una splendida storia di sport.
Da Trieste, nella scia del maestro Nereo Rocco, 'Cesarone' insomma e' arrivato a segnare per oltre mezzo secolo la scena calcistica nazionale e internazionale: tanto che ad un certo punto, ed era già anziano, lo volevano come ct anche negli Emirati Arabi, ma lui preferì fare il commentatore televisivo, ingaggiato da Al Jazeera.
Senza tuttavia recidere il cordone ombelicale con il suo Milan, dove ha interpretato ogni tipo di ruolo, giocatore, allenatore, capo degli osservatori, consulente: con un unico momento di amarezza vera, quando vinse un derby per 6-0 contro l'Inter dell'amico, ed ex 'secondo' ai tempi dell'under 21, Marco Tardelli: spiegò che anche lui sapeva cosa voleva dire una sconfitta del genere, avendola subita nel 1991 in Norvegia con l'under 21, "Ma il calcio - concluse dando il senso dell'ineluttabilitàò di certe cose - è fatto di vittorie e sconfitte, un piatto semplice". Un po' come pane e salame.
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