Martedì 24 Dicembre 2024

Anthony Hopkins, il glaciale Hannibal Lecter spegne 80 candeline

ROMA. Sir Anthony Hopkins appartiene a quell'esclusivo club di predestinati che festeggiano il compleanno mentre il resto del mondo fa festa a Capodanno. Nato a Margam nel Galles il 31 dicembre 1937, il grande attore inglese (ora naturalizzato americano, ma geloso delle sue radici e del titolo di baronetto conferitogli nel 1993 dalla Regina Elisabetta) è figlio di panettieri, ha vissuto gli stenti della guerra e della crisi mineraria, è figlio unico ed è stato un bambino scontroso, dislessico e solitario, marcato dalla figura imponente del nonno: anche per questo timido e ribelle ad ogni imposizione.
"Da ragazzo - racconta - ero un vero disastro, ottuso e testardo, negato agli studi. La mia salvezza è stato ritrovarmi su un palcoscenico scolastico e da lì finire al Welsh College of Music and Drama dove mi fece notare la mia passione per il pianoforte. Capii allora che esibirmi in pubblico mi dava quella sicurezza che non avevo dentro di me". Arruolato nell'esercito per due anni, una volta smessa l'uniforme il "fuciliere Hopkins" continua la gavetta teatrale fino ad approdare alle audizioni della Royal Academy e poi al National Theatre dove nel 1965 è Laurence Olivier in persona ad approvarne l'ingaggio.
Molti anni dopo, quando si tratterà di completare lo "Spartacus" di Kubrick nella versione senza i tagli di censura reintegrando la voce dello scomparso Olivier, sarà proprio Hopkins a doppiare il suo maestro così perfettamente che anche oggi è impossibile distinguere le singole scene. Per Anthony Hopkins il gran teatro londinese (con un repertorio vastissimo da Shakespeare a Osborne, in cui eccelle grazie alla sua formidabile memoria, anche oggi quotidianamente allenata) diventa una seconda casa, ma fin dal '67 debutta anche sullo schermo grazie al maestro del "Free Cinema" Lindsay Anderson che lo chiama per "Il bus Bianco" prodotto e trasmesso dalla Bbc.
L'anno dopo indossa i panni di Re Riccardo nel "Leone d'inverno" di Laurence Harvey e partecipa del successo planetario del film, tanto da essere subissato di proposte per il cinema sia in patria che negli Stati Uniti. Tra i molti registi che lo vogliono c'è Richard Attenborough con cui lavorerà ben cinque volte e che resterà uno dei suoi migliori amici anche dopo il "gran salto" a Broadway nel 1974. Comincia in quel periodo la passione, quasi mimetica, di Hopkins per i grandi ruoli storici che, del resto, aveva cominciato già a praticare in patria tra Riccardo Cuor di Leone, Winston Churchill, Danton, Lloyd George. Ma adesso vengono lo Hauptman del "Caso Lindbergh" e il Rabin de "La lunga notte di Entebbe", tutti prodotti dalla tv americana. E infine, nel 1980 la fortuna si materializza nell'incontro con David Lynch e il dottor Treves di "The Elephant Man".
Per la carriera si tratta di una vera svolta perché lo "naturalizza" cittadino di Hollywood senza rinunciare alla notorietà in patria. Sono gli anni del "Bounty" (1984) e "84 Charing Cross" (1985), "L'irlandese" (1988) e "Ore disperate" (1990). Ma in quello stesso anno incrocia il personaggio di Hannibal Lecter nel "Silenzio degli innocenti" di Jonathan Demme, trionfa all'Oscar nel 1991, si costruisce una maschera che non abbandonerà più, fatta di minaccia e seduzione, violenza e razionalità, gelo esteriore e tumulto interiore. La seconda moglie, Jennifer Lynton da cui divorzierà nel 2002, gli offre stabilità personale, la casa sulla spiaggia di Los Angeles diventa il suo rifugio, i ritorni in Inghilterra sono altrettanti trionfi. Lavora con Coppola ("Dracula") e l'amico Attenborough ("Chaplin"), costruisce personaggi memorabili in "The Innocent" di John Schlesinger e "Quel che resta del giorno" di James Ivory, diventa baronetto. Per altre due volte sfiora l'Oscar: con un memorabile Richard Nixon nel film omonimo di Oliver Stone e poi con "Amistad" di Steven Spielberg. Ma rinsalda la sua popolarità anche con film meno raffinati come il fantasioso "La maschera di Zorro" di Martin Campbell o i due sequel di Hannibal firmati da Ridley Scott e Brett Ratner. Col passare del tempo è sempre meno attirato dal successo personale e indulge in partecipazioni tanto economicamente vantaggiose quanto poco incisive, fino al recente "Thor" che accompagna in ben tre reincarnazioni.
L'antica fiamma si risveglia a tratti come nell'ambizioso "Titus" di Julie Taymor o nell'applaudito "Bobby" di Emilio Estevez, girato nel 2006 o nel mimetico "Hitchcock" del 2012. Sempre di più lo attraggono le passioni giovanili, dalla musica (in gioventù ha composto anche un valzer) alla pittura (ha esposto in più occasioni), la regia (l'irrisolto "Nella mente oscura di H" del 2007). La nostalgia dei classici lo ha portato però, nel 2017, a girare l'ancora inedito "King Lear" diretto da Richard Eyre per la tv in cui apparirà a fianco della vecchia amica Emma Thompson.
Per contrasto, ha sempre mimetizzato l'origine proletaria con gesti, accento, scelte da gentiluomo inglese che sembra ogni volta "prestato" alla fantasia fracassona del cinema americano. Oltre oceano ha sempre ritrovato con piacere compagni d'avventura inglesi, da Ivory a Schlesinger, da Scott a Attenborough, ma guardandolo sullo schermo, ascoltandone il timbro di voce melodioso e sommesso, scrutando nei suoi occhi di ghiaccio, non è possibile cancellare quell'ombra di solitudine e smarrimento che fu certamente dell'Anthony Hopkins ragazzo.
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