ROMA. Ormai è considerato un fenomeno sociale, sempre più complesso: meno nascite in Italia.
Secondo l’Istat, nel Paese il numero medio di figli per donna è di 1,27. Fuori dai numeri: bassissimo. E una nazione non si regge su una denatalità in fortissimo aumento. Accade che, oggi, le donne, spostano sempre più in avanti negli anni la possibilità di un concepimento, con il rischio di fallimento. Un problema dei nostri giorni che, secondo gli esperti, porta 1 donna su 4 a non avere un figlio.
Da alcuni studi, emerge che la causa non sta solo, come da tempo correttamente si recita, nell’incertezza del futuro, nelle difficoltà economiche, nello scoglio di trovare un lavoro, nella precarietà che può durare anni e anni, ma anche in un discorso ancora più subdolo. «Una chiave di lettura diversa individuata da poco», come dicono gli esperti italiani e stranieri convenuti a Roma, al 17° congresso dell’Accademia internazionale della riproduzione umana, nata a Rio de Janeiro nel 1974 e presieduta dal professore Joseph Schenker.
Le donne, per la loro maggiore riuscita, come capita spesso, negli studi, nella posizione che assumono nel mondo del lavoro, spesso di vertice, vanno in cerca di un partner che sia loro pari nella classe sociale. Di contro, gli uomini, nella società d’oggi, assumono livelli sempre di più bassi come dati di successo, rispetto alle donne. Ed ecco che la fascia consistente femminile in carriera o non guarda in faccia nessuno o trova con più difficoltà di prima il partner adatto.
«Si tratta di un fenomeno che si sta espandendo e che va assumendo le caratteristiche di un grosso problema, ma intanto è bene far capire alle donne che esiste un limite alla riproduzione umana», sottolinea il professore Pasquale Patrizio, direttore del Fertily Center della Yale University. Patrizio spiega la recente scoperta dei meccanismi coinvolti nel processo di invecchiamento ovocitario, a lungo oggetto di ricerca. Il follicolo (l’ambiente in cui l’ovocita cresce) con l’andare avanti nell’età, viene esposto a una progressiva e cronica deprivazione di ossigeno, andando incontro a una maturazione non ottimale, causa di insuccessi procreativi.
«Lo spostare in avanti l’età del primo figlio dopo i 30 anni, non coincide con l’orologio biologico il cui picco di massima fecondità è tra i 16 e i 22 anni», osserva il professore Andrea Genazzani, direttore della Ginecologia e Ostetricia dell’università di Pisa e Segretario generale dell’Accademia Internazionale della riproduzione umana. Intanto, va detto, che il dato medio italiano in cui le donne diventano mamme per la prima volta è di 30,1 anni.
Gli esperti concordano sul calo dell’efficienza riproduttiva dopo i 35-37 anni e della perdita della fertilità tra i 42 e i 44 anni. Il pericolo è già insito dopo i 30 anni, quando possono insorgere diabete, ipertensione, stress lavorativo, compagni non facili per la realizzazione di un progetto di maternità.
La fecondazione medicalmente assistita? Le nuove tecniche e, soprattutto, l’esperienza accumulata negli anni, hanno portato il successo delle gravidanze dal 15% del passato al 50-60% di oggi. Le nuove acquisizioni parlano di stimolazione ovarica personalizzata e controllata, di recenti conoscenze delle caratteristiche dell’invecchiamento ovarico, dell’osservazione continua, attraverso telecamere fisse, delle prime fasi di sviluppo dell’ovocita fecondato. Inoltre, la nuova indicazione è di trasferire in utero un solo embrione, quello che ha il massimo delle condizioni biologiche, in donne con meno di 35 anni e due dopo tale età.
«Nella riproduzione assistita – aggiunge Genazzani – stiamo vivendo risvolti importanti. All’Accademia insegniamo, oggi più che mai, a non guardare a questa disciplina come un business, ma come qualcosa di cui innamorarsi».
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